Nei tempi moderni la donna viene chiamata la nostra metà, ma è un semplice modo di dire. Ai tempi della Repubblica pare invece, che la donna fosse realmente la metà di un uomo; e ciò perché ce ne volevano due per formare un maschio. A sostegno di quest’asserzione cito l’art. 33, nel quale è detto: «Chi dice ladro, falso, cornuto, servo, tu menti, e simili villanie ad un uomo libero, paghi di multa lire 20 di Genova. E basti per teste un uomo, oppure due donne!».
Nel criminale poi la cosa variava; due donne erano ritenute come un teste, semprequando però nella causa vi fosse almeno un altro teste maschio; nel caso contrario, cioè se si trattava di sole donne, queste non potevano essere mai ammesse, né ascoltate, né credute!
E per fermo la donna nel Medio Evo era ritenuta molto più debole che non lo sia al presente. Un articolo dello Statuto dice, che qualunque donna, avesse o no marito, non poteva fare testamento senza consultare suo padre; e se non aveva padre, consultasse due prossimi parenti; e se non avesse parenti, due vicini di casa. In caso contrario il testamento doveva essere nullo.
L’art. 24 dice: «Se alcuno, maschio o femmina, ruberà o commetterà qualche frode per rubare un servo od una serva, sia condannato in lire 50; cioè lire 25 da pagarsi al Comune, e lire 25 da pagarsi al Signore del servo o serva rubata; salvo però se i servi o le serve, entro 10 giorni, ritornino ai loro padroni; in questo caso si dovranno pagare al Comune lire 5 di multa, ed al Signore le spese, i danni e gli interessi».
Pare dunque, che anticamente si rubassero a vicenda i servi e le serve, colla stessa facilità con cui oggi si rubano le frutta dalle nostre campagne!
Le donne maritate non potevano far contratto di sorta senza il consenso del marito; e se lo facevano, l’art. 49 stabiliva di ritenerlo come nullo; salvo però se esso si facesse per giusta e manifesta necessità, nel qual caso la moglie doveva presentarsi al Podestà ed al Consiglio Maggiore accompagnata da due suoi parenti, per esporre le sue ragioni, a cui sarebbesi provveduto secondo il caso. – Il Tola osserva, che forse derivò da questo Statuto la patria legge, per cui le donne non potevano fare contratti onerosi senza permesso del Giudice competente, o del marito, se lo avevano. Quanto poi alla donna maritata con dote, non poteva fare alcun debito, consenziente o no il marito.
L’art. 8 del Libro II parla chiaro: «La moglie maritata alla sardesca è tenuta a pagare la metà di tutti i debiti fatti dal marito per comune utilità, sia stata essa presente o assente quando si contrasse il debito». – E il Tola nota: «ciò vuol dire, che il matrimonio ad modu sardiscu fu assoggettato a certe leggi dallo Statuto di Sassari, mezzo secolo prima di quello di Eleonora d’Arborea».
«La donna maritata, per nessun debito del marito, non è tenuta andare, né può essere consegnata ad alcun creditore, vivente il marito».
Questo è un articolo curioso davvero! Pare che nei debiti si accettassero in pagamento anche le mogli! – Continuiamo:
«E il marito che sarà consegnato in persona ad un creditore, per qualunque debito, sia tenuto nella prigione del Comune finché paghi, coll’obbligo al creditore di somministrargli ogni giorno due razioni di pane, se quegli non avessero i mezzi di procurarsele».
Simile prescrizione trovasi pure nelle leggi civili e criminali di Sardegna. Andiamo avanti, ché viene il bello!
«Se alcuna moglie, priva di marito, sarà consegnata in persona per alcun debito, non può essere messa in carcere; ma sarà obbligata servire il suo creditore per 12 soldi l’anno (!) fino a scontare il debito. Se costei però avesse una professione, presterà servizio per soldi 23 annui, da computarsi nel debito. Se avesse il tanto da poter dare annualmente quella somma al creditore, essa verrà esonerata dal prestar servizio; in caso diverso dovrà servire e ricevere quello stipendio dal creditore, il quale è obbligato di darle a mangiare, a bere, nonché calzarla e vestirla convenientemente come si usa colle donne di servizio. Se infine (ecco la bomba!) la donna non volesse servire, il creditore potrà costringerla coi ferri (?!)».
Ecco, per esempio, un residuo dell’antica schiavitù, a cui dedicheremo più tardi un apposito articolo.
«Se una donna, con pietra od arma, ferisse un’altra donna, in modo da uscirne sangue, lasciando traccie sul viso, era condannata a pagare lire 10, se libera; lire 3, se serva; e se traccie in viso non lasciava la percossa, la donna libera pagava soldi 20, e la serva soldi 10. – In ultimo, se nella zuffa l’una stracciava all’altra la cuffia od altri panni, il Codice obbligava semplicemente la rea ad aggiustarli».
Si noti, che per le ferite sul viso, cagionate con bastone, ferro od altro, la legge escludeva i mariti verso la moglie, famiglia e servi. E ciò vuol dire, che il Capo della famiglia poteva a suo piacimento rompere la faccia alla moglie, ai figli ed ai servi, senza averne un dolor di testa. Fra tutte le leggi antiche, questa è forse l’unica che pervenne inalterata fino ai nostri giorni.
L’art. 13 infliggeva una condanna all’uomo che tagliava i capelli o le treccie ad una donna. Se questa era libera, la multa era di lire 20; se schiava, di lire 5.
A quanto pare, nei tempi della Repubblica, recidere le treccie alle donne era una vendetta comune! – Perché ciò? – Non potrebbe ricercarsi in questo bizzarro capriccio il primo germe dello chignon?
Se invece poi di un uomo, era una donna che tagliava ad una sua compagna le treccie, la multa diminuiva: per la libera, erano 5 lire; per la schiava, 15 soldi.
Lo stesso articolo infliggeva una pena pecuniaria a qualunque persona tagliasse col coltello il brachile (brache) ad un uomo; se questo era libero, si pagava 10 lire; se servo, 3 lire. – Nel 1300, il maggior sfregio che potesse farsi ad un uomo era dunque tagliargli le brache? – Curioso sfregio! I nostri antichi erano ben originali nello sfogare la loro collera!
Dal breve cenno finora fatto degli Statuti abbiamo veduto, che la condanna è sempre tenue quando trattasi della donna, e qui lascio la parola al Manno il quale scrisse:
«… Queste distinzioni di condanna non d’altra cagione potevano procedere, salvo dal massimo dei principii della filosofia criminale, che nella misura del dolo ragguaglia quella del reato. Laonde io giudico aver creduto quei legislatori essere nelle femmine in quei casi minore la deliberazione perché maggiore è l’irascibilità; e le passioni essere più scusabili dove le tempesta degli animi è per natura meno resistente. La qual sentenza, se accettata senza restrizione può essere occasione di novelli erramenti in questa parte della giurisprudenza, che di tutte le altre è ancora oggidì la più lontana dalla perfezione, pure ha tali radici nel cuore dell’uomo, che io mi confido non sia per essere trascorso senza meditazione il cenno qui datone».
Molti d’altronde erano i vantaggi e gli svantaggi della donna al tempo della Repubblica Sassarese; e mi basta riepilogarne alcuni:
Mentre agli uomini era proibito di passeggiare per la città senza il tizzone acceso, alla sola donna era permesso passeggiare all’oscuro.
Non si voleva che essa andasse dietro ai morti i quali si trasportavano in chiesa prima di seppellirli; e ciò perché non si spaventasse.
In certe occasioni e per gli stessi peccati, pagava qualche volta più dell’uomo; per esempio, se voleva andare a far veglia nella vigilia di qualche festa campestre, pagava di multa 5 soldi più dell’uomo.
Se la pungeva il desiderio di vedere un uomo nel bagno, fingendo di sbagliare il giorno a lei assegnato, era bruciata senza misericordia.
Se era serva, e si permetteva l’amore con qualche studente, veniva arsa viva.
Aveva il dritto di portare il proprio marito dinanzi al Consiglio Comunale, se era un prodigo.
Non poteva portare la cannocchia e filare per le vie, quando vendeva frutta, erbaggi, od altre cose da mangiare.
Ed a questo proposito non posso qui tacere di una osservazione fatta dal Manno, parlando degli Statuti di Sassari nella sua Storia di Sardegna. Egli scrive: «Finalmente, a tenere occupate con profitto quelle fra le donne che hanno maggior bisogno di essere operose madri di famiglia, tendeva la legge; per cui era comandato a tutte le femmine di contado le quali aggiravansi per le pubbliche vie non occupate nella vendita di qualche merce, dovessero comparirvi colla cannocchia e col fuso, attente al loro lavoro».
Per quanto io abbia letto e riletto in tutti i sensi gli Statuti, non mi venne fatto d’imbattermi in questa legge; né so capire dove il Manno l’abbia pescata. Io credo che l’illustre Storico abbia frainteso l’art. 83 il quale proibisce alle donne di andar filando per le vie quando vendono le frutta.