Ancora Carlo Alberto (1847-1848)
L’anno 1847 fu foriero delle Riforme Liberali, che da quasi vent’anni il Piemonte e la Sardegna sospiravano. I congressi scientifici, le letture popolari, il giornalismo, gli scritti di caldi patriotti avevano infiammati i petti degli italiani, risvegliando lo spirito nazionale e preparando il crollo del Governo Assoluto.
L’annunzio delle riforme concesse al Piemonte era pervenuto a Sassari nel Novembre del 1847. L’entusiasmo della cittadinanza è indescrivibile. Schiere di cittadini correvano per le vie al grido di: Viva Carlo Alberto! Viva Pio nono! Viva Leopoldo di Toscana!
E la città turritana – come quella di Cagliari – si affrettò ad inviare a Torino una deputazione di cittadini, dichiarando che voleva far causa comune coi fratelli del continente, pur col sagrifizio degli antichi e speciali privilegi accordati all’Isola dai monarchi Spagnuoli e Sabaudi. I componenti la Deputazione sassarese fecero ritorno il 26 Dicembre, accolti con entusiasmo. Miliziani e barracelli, drappelli di giovani con bandiera, il corpo dei zappatori, tutti i gremi degli artigiani, scolaresca, avvocati, professionisti, tutti erano andati al loro incontro, intonando inni patriottici.
L’anno 1848 fu iniziato a Sassari con un solenne banchetto nazionale, a cui presero parte le persone più liberali del paese, insieme a piemontesi, liguri e savoiardi.
La mattina del 5 Febbraio arrivano a Sassari le copie delle Sovrane Disposizioni. Il Consiglio Comunale, esultante, deliberò di erogare somme rilevanti in opere di beneficenza; cambiò nome ad alcune vie e piazze, ribattezzandole con denominazioni che ricordavano il fausto avvenimento: supplicò il nuovo governo liberale perché allontanasse dalla città i Gesuiti, da qualche tempo invisi alla popolazione.
I Gesuiti, cacciati dalla popolazione, salparono da Portotorres il 2 Marzo. Il loro numero in Sardegna era di soli 60, mentre nel 1773 ascendeva a 270. Il 17 e il 18 dello stesso mese avvennero tumulti in città per la mancanza di grano e di carne. I muratori chiedono lavoro, e gli ortolani implorano provvedimenti per la piantagione del tabacco. Il Municipio si rivolge al Viceré, esponendogli che i cittadini in generale volevano la quiete, mentre non mancavano i malevoli ed i malcontenti che cercavano pretesti per provocare le turbolenze. E intanto, nel Marzo, nomina una commissione, e fa appello alla cittadinanza per un prestito, onde occupare gli operai tumultuanti in lavori dentro e fuori città, e specialmente nella sistemazione della nuova strada per Alghero.
Intanto il re Carlo Alberto proclamava la guerra contro l’Austria. Il fanatismo della gioventù divenne indescrivibile. Il giornale La Sardegna (primo periodico politico fondato nell’Aprile) accendeva gli animi ed eccitava i giovani alla difesa della patria. Il 1° Maggio salparono da Portotorres 86 volontari fra l’entusiasmo della popolazione; le signore sassaresi offrirono loro una bandiera tricolore.
Nell’Aprile ebbero luogo le elezioni dei Deputati nei tre Collegi di Sassari. Riuscirono eletti Don Pasquale Tola, Don Giacomo Fresco e il Conte Baudi di Vesme (quest’ultimo in riconoscenza di un libro da lui pubblicato in difesa della causa sarda).
I festini continuavano in seno alla miseria degli operai, che accorrevano al Municipio implorando lavoro.
Nel Giugno nuove elezioni, tra Francesco Sulis, che godeva le simpatie della gioventù liberale, e Don Pasquale Tola, appoggiato dagli uomini del passato. Il primo la spuntò di pochi voti.
A questo punto entra in iscena il geometra Antonico Satta, il quale faceva ritorno in patria, dopo aver dimorato per molti anni in Londra ed a Parigi. Ardente liberale, egli trasse a sé i giovani più distinti del paese. I suoi discorsi incisivi e violenti contro i preti ed i nobili non tardarono a creare dei malumori nelle famiglie, ond’è che molti si scostarono da lui. Nacque la reazione; ma il Satta si vendicava degli avversari colle prediche che improvvisava in piazza, eccitando la turba dei popolani che gli facevano corona.
Un partito di parte moderata, con a capo Don Pasquale Tola, scese in campo per combattere Antonico Satta e i suoi seguaci.
Il tribuno sassarese, accolto da prima con tante simpatie, finì per disgustare i molti cittadini presi di mira con attacchi violenti e con allusioni volgari.
Si trascese da ambe le parti; ed in Sassari si viveva in affanno per gli attriti che si accentuavano. Per il Tola militavano i Saba – per il Satta i Maccioccu ed i Careddu: famiglie turbolente di artigiani e pastori, di fama equivoca e nemiche tra di loro.
Le dottrine di Antonico Satta e le sue audaci prediche in piazza trascinarono a tristi conseguenze. Il Satta venne arrestato in un Caffè, mentre aringava dinanzi un gruppo di esaltati. L’autorità giudiziaria deliberò di tradurlo alle carceri di Alghero ma i suoi amici e i popolani di sua parte si opposero energicamente, e riuscirono a farlo rimettere in libertà. Il tribuno fu accompagnato alla propria abitazione da una folla plaudente.
La questione, portata in Parlamento, venne discussa in due tornate del Novembre e Dicembre di quell’anno 1848. I difensori del Satta furono i deputati Sulis e Ferracciu, i quali dimostrarono che l’arresto era stato arbitrario, e che tutta la colpa doveva ricadere sul corpo dei Cacciatori franchi, allora di guarnigione a Sassari.
Chiuso per ordine superiore il Circolo Nazionale, il Satta continuò le sue prediche pepate in Baddimanna, o nel largo di Porta Sant’Antonio.
Nel Dicembre ebbe luogo la elezione dei Consiglieri comunali; il primo dei quali (il commerciante Sebastiano Brusco) uscì dalla urna con 216 voti – e l’ultimo (il Cav. Simplicio Maffei) con voti 85. Ciò per dirvi quanto smilza era la lista degli elettori in una città che contava allora circa 20 mila abitanti.
E il quarantotto si chiuse tra le turbolenze popolari, e il cozzo violento di due feroci partiti, l’un contro l’altro armato.
Era impossibile un accordo fra i tre gruppi che componevano la parte eletta dei cittadini: quello cioè che voleva correr troppo, quello che desiderava tornare indietro e il terzo infine che voleva fermarsi allo statu quo. L’omnibus costituzionale era tirato da tre cavalli di diverso umore, e camminava a sbalzi od a sghembo, senza riuscire ad imbroccare la nuova strada tracciata dalle Riforme.
L’anno 1849
Il primo trimestre del quarantanove (ultimo di regno dello sfortunato Carlo Alberto) non fu meno ricco di tempestosi avvenimenti per la città di Sassari.
L’anno si iniziò con la continuazione delle prediche di Antonico Satta sulle alture di Baddimanna. Ivi l’audace tribuno attaccò il clero, ed indicò come causa prima dei disordini l’arcivescovo piemontese Varesini, designandolo come il continentale più avverso alla libertà della Sardegna. Egli propose addirittura lo sfratto di Monsignore, e l’adunanza lo votò ad unanimità.
Una commissione di tre individui (fra i quali un valente medico) si recò la sera stessa all’Episcopio per comunicare la decisione presa dall’assemblea e il Varesini dichiarò, che non intendeva abbandonare la sua sede senza il voto unanime di tutta la Diocesi.
Sparsasi la voce di questa violenza, tutti i nobili, ai quali si unì il clero, molti borghesi, e una parte dei popolani, fecero una solenne dimostrazione e il 2 Gennaio, scortati da Don Pasquale Tola, si recarono all’Episcopio.
Il prelato piemontese si mostrò commosso di quell’attestato di stima, ma ebbe la imprudenza di lasciarsi portare in processione per la città, attorniato da tutti i nobili, dagli ufficiali della Guardia Nazionale, e da molti ragguardevoli cittadini.
Dopo aver percorso le principali vie della città, la processione giunse alla gradinata di S. Catterina (oggi piazzetta Azuni); ma colà fu sbaragliata da una schiera di amici e partigiani di Antonico Satta, alcuni dei quali, in tenuta da caccia, ed armati di fucile, si diedero a schiamazzare, gridando: fuori Monsignore! Non lo vogliamo!
Successe un parapiglia indescrivibile, e fu fortuna se non capitò alcuna disgrazia. L’arcivescovo fu trascinato quasi svenuto nel vicino Ufficio dell’Intendenza (nel locale oggi occupato dall’Albergo d’Italia).
Nello stesso mese di Gennaio vi fu lotta nelle elezioni politiche tra il Sulis ed il Tola; ma sebbene quest’ultimo vincesse l’avversario di 37 voti, la sua elezione venne annullata.
Il tribuno rivoluzionario continuava intanto le prediche, e nel Luglio, salito su di un carro a buoi, leggeva ad alta voce un articolo del Proletario di Torino, il quale attaccava ferocemente i due deputati Pasquale Tola e Vittorio Angius (due benemeriti scrittori di cose sarde).
Nei primi di Marzo si procedette all’arresto di molti tumultuanti e fra questi Antonico Satta, che fu colto a Portotorres, sul punto di imbarcarsi per il continente. Lo spodestato tribuno fu tradotto alle carceri di Sassari, seguito da una folla di curiosi, ma questa volta nessuno mosse un passo per strapparlo alle carceri. Attorno a lui si fece un silenzio profondo. Il popolo, sempre volubile, gli volse bruscamente le spalle.
Alberto Lamarmora – nominato Regio Commissario straordinario per sedare le turbolenze avvenute in diversi comuni della Sardegna – arrivò a Sassari il 13 Marzo; ma l’uomo politico non ebbe dai sardi l’accoglienza festosa che era stata fatta altra volta allo storico e geologo benemerito. Egli, coi proclami, non fece che inasprire le fazioni.
Verso gli ultimi di Marzo pervenne a Sassari la desolante notizia della sconfitta di Novara, e dell’abdicazione del re Carlo Alberto a favore del suo primogenito Vittorio Emanuele.
Nello stesso giorno venne partecipato a Don Giacomo Deliperi il R. Decreto che lo nominava Sindaco di Sassari. Sino a quel giorno era stato in siffatta carica Don Antonio Ledà Conte d’Ittiri – uno dei più benemeriti cittadini sassaresi, stimato dalla popolazione per la sua bontà di carattere, per la sua generosità, e per il suo amore al paese natio.
Sindaco Giacomo Deliperi
Vittorio Emanuele II (1849). – Questo Re impugnò lo scettro il 23 Marzo 1849 – nel giorno della sventura e sei giorni dopo giurava fedeltà allo Statuto. L’indulto da lui concesso per i reati politici fu favorevole ad Antonico Satta e ad altri sedici suoi compagni di fede, i quali furono tutti scarcerati. Una folla di popolani volle fargli una dimostrazione di stima sotto le finestre; ma egli si affacciò gridando: «Ne ho abbastanza delle vostre dimostrazioni di affetto!».
Poco dopo la sua liberazione, Antonico Satta partì per Genova, dove diresse un giornaletto repubblicano. Ivi morì nel 1851, per una puntata d’ombrello infertagli da un suo avversario in giornalismo.
Come tutti gli uomini politici che suggestionano le masse popolari, anche Antonico Satta venne in modo vario giudicato dai contemporanei e dagli storici: alcuni lo vollero un avventuriero ciarlatano; altri lo dissero un uomo d’ingegno non comune, calunniato perché non compreso, ma degno di miglior sorte.
Dopo la partenza di Satta, in Sassari non si viveva troppo tranquilli. Gli omicidi ed i furti si succedevano con troppa frequenza, e la forza pubblica era impotente a frenarli. Per molti la licenza aveva preso il posto della vera libertà. Paolo Martinelli (in un articolo ai Deputati sardi, pubblicato nella Sardegna del 22 Aprile 1848) scriveva fra le altre cose:
«… La Sardegna – questa terra che nella schiavitù stessa seppe talvolta esser libera, e nell’umiliazione medesima potente e temuta – è un campo vergine all’impianto delle vere e civili istituzioni: un abisso profondo di mali, e grandi, e molti, ed incredibili; è un popolo sospinto fra ciechi impulsi; oscillante ancora tra le vecchie abitudini ed il nuovo ordine rigeneratore di cose; inerte e passivo nei suoi diritti…».
I partiti di Sassari si erano accentuati. Quello dei retrivi, che faceva capo all’arcivescovo Varesini, lottava coi giovani ardenti che militavano con Sulis, primo dei quali Salvatore Manca Leoni. La disfatta di Novara aveva conturbato gli animi. Nel Luglio del 1849 fu eletto Deputato Francesco Sulis, con 88 voti di maggioranza sul sacerdote Salvatore Delitala, appoggiato dai clericali moderati.
Altra lotta accanita fra lo stesso Sulis e il Prof. Diego Marongiu; questi uscì dall’urna vincitore, ma le elezioni vennero annullate, e rifatte nel Febbraio dell’anno seguente.
Monsignor Varesini (1850). – Nelle elezioni del Febbraio i candidati erano due: il Conte d’Ittiri e Sulis, al quale toccò la vittoria.
Il 28 Aprile 1850 l’arcivescovo Varesini invitò tutte le autorità civili e militari ad intervenire alia funzione del Tedeum nel Duomo, in ringraziamento del ritorno del Pontefice a Roma. Il Municipio dichiarò di astenersi, e la chiesa in quel giorno rimase quasi deserta. Alcuni cittadini avevano stabilito di accogliere Monsignore a fischi, altri di fargli una dimostrazione di stima. L’intendente scongiurò i fischi e le grida di giubilo col proibire che si suonassero le campane all’arrivo del prelato in chiesa.
Nel Maggio si discusse alla Camera la proposta del ministro Siccardi sull’abolizione del foro ecclesiastico. Parlò in favore il Sulis e contro il Marongiu. In Sassari crebbe l’agitazione clericale, favorita dai fautori dei Gesuiti, che da due anni lavoravano sott’acqua, sperando in un prossimo ritorno. Una circolare dell’arcivescovo Varesini diretta ai parroci (eccitandoli alla ribellione) venne sequestrata, e provocò una perquisizione nell’Episcopio. L’arcivescovo tentò scappare a Portotorres, ma venne costretto quasi con violenza a rientrare in città. Gli si intentò un processo nel Maggio, ma il tribunale dichiarò di non farsi luogo a procedere.
I liberali cercarono aderenti, per una sottoscrizione in favore del ministro Siccardi, a cui volevasi inalzare un monumento. Il Municipio vi concorse per 900 azioni di 25 centesimi cadauna.
Monsignor Varesini, tenuto in arresto nell’Episcopio, il 4 Luglio venne condannato dal magistrato d’appello a un mese di carcere e nelle spese della procedura. Si gridò ad un trionfo del partito liberale.
I Saba e i Careddu (1850-51). – Dopo la partenza di Antonico Satta da Sassari nel 1849, le ire delle due fazioni, che si erano schierate nelle fila dell’uno e dell’altro partito, si riaccesero più vivamente, né tardarono a scoppiare. Nel Giugno del 1850 i Saba ed i Careddu vennero a un sanguinoso conflitto in Baddimanna; tre di essi rimasero morti sul terreno, tre altri feriti, uno dei quali mortalmente. Si erano presi a vicenda a fucilate, inseguendosi fin dentro città.
L’anno seguente (1851) altro attacco sanguinoso era avvenuto dentro città, nel penultimo giorno di carnevale. La squadriglia dei Maccioccu aveva teso un agguato ai fratelli Saba, che abitavano nei pressi della chiesa di S. Andrea. Comparsi sul Corso il padre Saba e due suoi figli, i Maccioccu li presero a fucilate, mentre una folla di maschere usciva dal veglione del teatro civico. Uno dei figli cadde al suolo fulminato; un altro, ferito gravemente, si diede a correre invocando un prete; una terza palla andò a colpire un fanciullo di otto anni, certo Salvatorico Piccolina, che stava sulla soglia di un negozio e morì pochi giorni dopo. Tutti gli altri superstiti delle due famiglie nemiche non tardarono a morire di morte violenta.
Questi tristissimi fatti si vollero conseguenze delle lotte politiche; ma la politica non fece che dar pretesto agli odi ed alle ire di quelle due famiglie di mala vita e di mala fama.
Vittima della calunnia fu Don Pasquale Tola, l’autore del Dizionario degli uomini illustri, il quale, denunziato al Ministero, fu da questo collocato in aspettativa nella sua qualità di magistrato; ma poi, riconosciute infondate le accuse, venne traslocato a Nizza con la carica di Consigliere di Appello.
Degna di nota nel 1851 è la Società di mutuo soccorso, fondata a Sassari da un Comitato di operai, sotto la presidenza del pittore Pietro Bossi.
Cittadini e Bersaglieri (1852-53). – Ma i tristi avvenimenti continuarono senza interruzione. L’anno seguente (1852) fu memorabile in Sassari per il conflitto fra i cittadini ed i bersaglieri di guarnigione. Già da tempo la popolazione era stanca della prepotenza dei militari, che si mandavano di guarnigione a Sassari, ed invano il Municipio aveva ricorso al Governo perché fossero sostituiti con altri che ispirassero maggior fiducia.
Futili cause, che risalivano ad una bella signora maritata, che volevasi corteggiare dagli uni e dagli altri, avevano suscitato le gelosie ed i dispetti fra gli ufficiali dei Bersaglieri e quelli della Guardia Nazionale, organizzata nel 1848. La infrazione di un articolo del regolamento teatrale fu la scintilla che provocò l’incendio. Un ufficiale dei Bersaglieri, sebbene gentilmente invitato da alcuni giovani ufficiali della Guardia cittadina, non volle togliersi il cappello mentre le signore ballavano, e da ciò lo scambio di vivaci parole e di qualche insolenza.
I risentimenti per questo fatto si covarono per qualche settimana, fino a che nell’ultimo giorno di carnevale avvenne una rissa nel rione di S. Elisabetta, fra popolani ed alcuni Bersaglieri di bassa forza. La notizia, esagerata, non tardò a fare il giro della città, e inasprì gli animi. Si suonò la generale, tanto da parte dei Bersaglieri, quanto da parte della Guardia Nazionale. Le autorità accorsero sul luogo della rissa… ma allora la rissa prese più serie proporzioni, tanto che vi furono molti bersaglieri e borghesi maltrattati e percossi.
Altro scontro più grave avvenne sull’imbrunire di quel giorno (24 Febbraio) tra il palazzo di città (dov’era un picchetto di Guardia Nazionale) e l’imbocco della via Scolopi. Di qua sbucava un drappello di otto cavalleggeri, guidato da un sergente. Si gridò: indietro! dalla popolazione – ma i militi si facevano avanti. Partirono allora dalla folla alcune fucilate, e si videro vacillare e cadere quattro cavalleggeri, uno dei quali morì poco dopo. Nessuno, seppe, o non volle dire, da qual parte vennero gli spari. Si procedette all’arresto di parecchi militi appartenenti al corpo dei Bersaglieri e della Guardia Nazionale, ma non tardarono ad esser messi in libertà.
I fatti erano gravissimi, ed il Governo prese misure energiche. Con R. Decreto del 29 Febbraio (quattro giorni dopo la rissa) veniva proclamato lo stato di assedio della città e provincia di Sassari. Il proclama fu firmato dal tenente generale Durando, comandante generale militare dell’isola di Sardegna.
La questione della rissa fra i cittadini e i Bersaglieri di Sassari venne portata alla Camera dei Deputati, e fu discussa nelle due tornate del 18 Marzo e 27 Aprile del 1852. Strenui difensori dei cittadini furono i deputati Sulis, Ferracciu ed Asproni.
La sommossa era stata presentata dal ministro dell’Interno e da quello della Guerra, come una ribellione di carattere politico ed un attentato alle autorità costituite.
Ben 36 individui vennero complicati nel processo – nove dei quali si erano dati alla latitanza, e 27 gemevano da molti mesi nelle carceri di Sassari e poi di Cagliari, dove si fece il giudizio.
Il Magistrato d’Appello ne aveva prosciolto 14: 23 subirono il giudizio, cinque dei quali latitanti. Vennero tutti assolti dall’accusa di ribellione, e parecchi condannati per il porto delle pistole. Il 17 Luglio del 1853 tutti gli imputati uscirono liberi dalle carceri di Cagliari, con acclamazioni ed attestati di sincera stima di tutta la popolazione cagliaritana.
Ci voleva una vittima, e questa fu il latitante lgnazio Sussarello, ebanista, consigliato a costituirsi dall’avvocato Siotto Pintor. Riaperto il dibattimento, il Sussarello venne condannato a 20 anni di lavori forzati. L’avvocato ne morì di crepacuore. Il povero ebanista aveva già scontato parecchi mesi di galera, quando ne uscì per grazia sovrana.
Don Giacomo Deliperi fu uno dei sindaci più liberali di Sassari. Resse con molto senno l’amministrazione comunale, e propugnò caldamente la istruzione primaria. In un suo discorso al Consiglio, nel Dicembre del 1850, egli conchiuse: «In un governo libero, libero il pensiero, individuale la coscienza dei propri diritti e dei propri doveri. Dall’istruzione diffusa derivano i buoni costumi, l’amore al lavoro, e la nobiltà d’animo che all’ignoranza non è dato sentire. L’idiota, sotto qualunque governo, è sempre uno schiavo!».
Sindaco Sussarello
Gio. Maria Sussarello (1853). – Fu il secondo sindaco di Sassari sotto il governo costituzionale, ed ebbe la nomina con Decreto Reale del Luglio 1852. Ardente patriota, egli era stato diversi anni in America, dove aveva combattuto per la libertà, ed è ingiustizia che il suo nome sia stato così presto dimenticato. Un corrispondente anonimo della Gazzetta Popolare di Cagliari lo attaccò violentemente come sindaco, facendogli carico di esser stato uno dei liberali del 1821. Egli rispose il 25 Maggio del 1853 con un articolo vibrato, inserito in un Supplemento dello stesso giornale. Ne riporto alcuni brani, tanto per lumeggiare la figura di questo colto gentiluomo sassarese (oriundo di Ozieri) quanto per dare un’idea dei partiti di Sassari in quel tempo.
«… Noi, gli uomini del ’21, fummo i primi a parlare alla nazione italiana dei suoi diritti disprezzati e pressoché dimenticati, e tentammo di svegliarla dal lungo sonno della servitù, chiamandola alla indipendenza ed alla libertà… Quei principii che io abbracciai nel 1821 non li ho mai abbandonati un sol momento, né per corso di tempo, né per cangiar di climi e di vicende. Venticinque anni di esilio, l’interruzione della mia carriera, e lo sperpero del mio patrimonio sono i vantaggi privati che ne ho ricavato. Né mi feci difensore della libertà con chiacchiere; l’ho difesa con le armi in varie campagne, e ne porto le cicatrici. Rientrando in patria attempato e stanco, avrei potuto decentemente starmene in riposo; eppure mi sono prestato a varie occupazioni, alle quali la confidenza dei miei concittadini e del Governo mi ha chiamato, perché tengo che ogni buon cittadino sia in obbligo di fare quanto sa e può pel suo paese… Fatti accorti del passato, lasciamo da una volta, per Dio!, questo spirito di fazione e di personalità che nulla vale a promuovere la causa che pretendiamo sostenere, bensì molto a screditarla. Si mantenga ad ogni costo l’unione e la concordia, e serviamoci di questa preziosissima libertà della stampa per illuminarci, e non per lacerarci a vicenda, gareggiando solo di zelo e di perseveranza nel far guerra senza tregua alla ignoranza ed all’errore…».
Queste ultime parole si sarebbero potute ripetere in ogni tempo, e fino ad oggi: esse ci rivelano, che l’educazione politica non ha punto migliorato dopo mezzo secolo di esperienza!
I due partiti (nel 1852). – Tanto l’angoscia delle numerose famiglie, che per lunghi mesi avevano aspettato trepidanti l’esito del dibattimento che si svolgeva a Cagliari, quanto i rigori dello stato di assedio che avevano turbato la vita della cittadinanza sassarese, contribuirono in gran parte ad attutire l’ardore dei due partiti politici, i quali per cinque anni si erano dilaniati a vicenda sotto l’impero del tribuno Satta e dell’imprudenza e intolleranza dell’arcivescovo Varesini.
Il deputato Ferracciu, nella famosa tornata del 27 Aprile 1852, così descrisse in Parlamento i due partiti di Sassari:
«Dopo lo Statuto due partiti parvero assumere in Sassari un carattere pronunciato: uno così detto il partito dell’ordine, ed era quello che avversava la libertà e le franchigie costituzionali; l’altro, con maligna insinuazione appellato mazziniano, ed era quello che teneva fermamente per le stesse franchigie. Non è mestieri che qui io narri le ostili macchinazioni dell’uno, e le improntitudini dell’altro…».
Due mesi dopo (il 16 Luglio 1852) il benemerito patriota Sussarello, nel manifesto a stampa che annunziava la sua nomina a sindaco, così descriveva la condizione dei due partiti:
«Qui, sfortunatamente, prevalgono le opinioni estreme: di coloro che rimpiangono i tempi andati, e di quelli che vorrebbero correre ciecamente oltre la meta stabilita. I veri moderati, amanti di un progresso ragionevole, qual si conviene a chi entra in una nuova carriera, sono tanto pochi da non potersi chiamare un partito. Da questo antagonismo è nato l’urto violento che in varie occasioni ha partorito luttuosi avvenimenti. Ma neppure in tanta divergenza di opinioni ciò sarebbe succeduto, se le tristi abitudini, figlie di una negletta educazione, non ci spingessero alla intolleranza e a far uso più delle armi che della ragione. Pochi mesi addietro una rissa accidentale (e non insolita fra i rumorosi divertimenti di carnevale) inasprita da imprudenti insinuazioni, e da false voci che tanto valsero ad esacerbare gli animi, ha prodotto le conseguenze che tutti deplorano».
Anche Sussarello ha qui esagerato le tinte contro gli avversari del progresso ragionevole.
Ho riportato i giudizi di due rispettabili uomini del tempo, e di diverso partito, perché il lettore conosca il pensiero dei contemporanei sulle due fazioni politiche che salutarono l’alba della libertà a noi concessa dalla Costituzione.
Sindaco Pisano-Marras
Amore ed eccidio (1854). – Era Sindaco di Sassari il prof. Pisano-Marras, fin dall’Aprile del 1854, in cui cessò dalla carica il Sussarello.
La tragica morte della nobile Minnia Quesada, appartenente ad una delle più distinte famiglie sassaresi, rese memorabile l’anno 1854.
Il giovane ufficiale Don Michele Delitala, aspirante alla mano della bellissima fanciulla, ebbe dalla di lei famiglia una formale ripulsa. Cieco d’ira e d’amore, la mattina del 30 Agosto il giovane Michele, armato di pugnale e due pistole, salì le scale della casa Quesada. Presentatasi per la prima la madre della Minnia, egli fece fuoco su di lei; ma colpì mortalmente la figliuola, ch’era accorsa per difenderla. Il giovine forsennato ricorse alla spada, e con questa ferì la madre ed una domestica che gridava al soccorso; scaricò in seguito l’altra pistola contro il padre e lo zio della ragazza, ed in ultimo tentò togliersi la vita ferendosi con lo stile. La giovine Minnia, diciannovenne, morì cinque giorni dopo perdonando il suo uccisore.
Il giovane ufficiale venne arrestato; ed invano si tentò ricorrere ad alti personaggi della Corte per ottenere la grazia sovrana. Dopo tre anni di carcere egli salì il patibolo nel Maggio del 1857.
Visita di Garibaldi (1854). – Altro notevole avvenimento dello stesso anno è la visita di Garibaldi alla città di Sassari. Egli venne per una partita di caccia il 15 Dicembre, in compagnia della figlia e di due suoi amici inglesi. Presero alloggio nell’Hôtel de France, di fronte alla via di S. Chiara, e sull’imbrunire gli fu fatta una serenata. Garibaldi vestiva alla cacciatora, ed aveva un fucile ad armacollo.
L’anno del cholera (1855). – Con tal nome è designato dal popolo il 1855, memorabile per la strage feroce fatta dal morbo asiatico.
I partiti in Sassari si erano riaffermati. Nei primi mesi del 1855 alcuni giovani avvocati, ardenti repubblicani, si erano proposti di dare un nuovo indirizzo alla Società di Mutuo Soccorso, fino allora solamente intenta alla mutua assistenza fra i soci operai. Per raggiungere lo scopo, essi cominciarono coll’offrirsi spontaneamente come maestri, per insegnare a leggere ed a scrivere agli operai. Fra questi giovani erano Giuseppe Giordano, Gavino Soro Pirino, Giacomo Leoni e Antonico Nieddu.
Il cholera si rivelò con pochi casi nei comuni di Portotorres, Torralba e Florinas. Era stato portato con alcune barche cariche di coperte e cappotti militari, provenienti da Livorno.
Il contagio cominciò a Sassari agli ultimi di Luglio, e andò sempre crescendo fino all’8 di Agosto, in cui si registrarono 533 casi; indi scemò gradatamente, e cessò verso la metà dello stesso mese. I colpiti dal cholera furono circa diecimila, ed i morti oltre i 5.000, in una popolazione che di poco oltrepassava i 20.000 abitanti.
Morirono sulla breccia molti ragguardevoli cittadini, fra i quali non pochi medici, sacerdoti e Consiglieri Comunali. Da ogni parte pervennero soccorsi, e diversi medici, farmacisti e infermieri arrivarono da Cagliari e dal continente.
La causa principale della voracità del morbo si deve alle deplorevoli condizioni della pubblica nettezza e dell’igiene pubblica.
Regio Commissario. – Col primo di Settembre venne sciolto il Consiglio comunale, e fu nominato Commissario regio l’Avv. Giuseppe Sotgiu, vice sindaco rimasto a posto durante la strage. Il sindaco Pisano-Marras, o perché indisposto, o perché impaurito, erasi ritirato.
Nel 21 e 22 Novembre ebbero luogo le elezioni generali.
Sindaco Giuseppe Sotgiu
Diverse dal 1856 al 1859. – L’avv. Giuseppe Sotgiu (nominato sindaco con R. Decreto 1855) entrò in funzioni nel successivo Gennaio.
Il cholera del ’55 aveva attutito gli odi, le ferocie e le gare di partito. Fu una sosta, un momentaneo arresto delle pubbliche e private energie – uno sviamento del pensiero, distratto dal pauroso ricordo di quel morbo inesorabile, il quale aveva tolto alla città un buon numero di cattivi e di buoni, di valorosi e d’inetti cittadini. Ond’è, che col 1856, si entrò realmente in un periodo che possiamo chiamare di calma – di calma relativa, per preparare nuove lotte in nome della libertà più o meno costituzionale.
Il carnevale del 1856 fu uno dei più notevoli per chiasso, baldoria e pazza allegria. La gioia di essere scampati al morbo aveva soffocato il dolore per la perdita dei cari congiunti. Le vedove e gli orfani erano in gran numero e perciò il Municipio aveva a tutti vietato di vestire il lutto. Le condizioni economiche del paese potevano dirsi migliorate, poiché ai numerosi poveri facevano riscontro i moltissimi arricchiti per i beni ereditati.
Durante quest’anno il Comune non pensò che a pagare i debiti – e nello stesso tempo a migliorare le condizioni igieniche della città, atterrando due porte: quella di Utzeri e di Sant’Antonio.
Con la soppressione dei molti ribaldi, pare che il cholera avesse messo la giustizia sulle traccie di un’associazione a delinquere, la quale, fin dal 1848 (e forse anche prima), erasi formata in Sassari, con lo scopo di togliere la proprietà e la vita al prossimo. La sede principale di questi malfattori era nei misteriosi laberinti dello stabilimento delle sanse, già appartenente al francese Issel.
Gli arrestati furono una trentina. Dopo quattro anni di carcere (nell’Aprile del 1860) essi vennero giudicati dalla Corte di Appello di Cagliari, con la condanna di tre alla morte, uno alla galera a vita, e diversi altri alla galera o alla reclusione a tempo più o meno lungo. Essi non poterono sottrarsi al rigore della legge, malgrado la bella difesa di dodici avvocati, fra i quali il famoso Stanislao Mancini, fatto venire appositamente dal continente.
Dopo la pubblicazione della Sardegna nel 1848 (primo periodico politico sassarese, ch’ebbe la durata di soli sei mesi) non era più sorto alcun giornale in Sassari.
I giovani mazziniani, che nel primo semestre del 1855 si erano offerti come insegnanti alla Società di mutuo soccorso, avevano continuato (non appena cessato il cholera) la loro opera di propaganda fra gli operai; ma ne nacquero malumori, attriti e dissidi, poiché una buona parte dei soci, appartenenti al partito moderato, si ribellò ad accettare il nuovo indirizzo. Da quel giorno nella Società non vi fu più pace, né pieno accordo.
Col 1857 i partiti si erano di nuovo delineati apertamente, e sentirono il bisogno di un organo di pubblicità, non volendo più dipendere dai giornali di Cagliari, i quali pubblicavano le corrispondenze in ritardo, o le mutilavano a loro piacimento.
Si cominciò in quell’anno con un periodico costituzionale, fondato e diretto dal giovine avvocato Antonio Manunta, col titolo L’Osservatore, in cui collaborava anche il Manca Leoni. Questo periodico, temperatissimo e signorile, si studiava di essere indipendente dai due partiti che lottavano con più violenza.
All’Osservatore tenne subito dietro l’Isolano, da principio quasi incolore, ma poi dichiaratosi clericale, per sostenere la candidatura del teologo prof. Marongiu.
Venne terzo Il Credente, periodico di principii repubblicani, sotto la direzione del dott. Giuseppe Giordano, con la collaborazione di Giacomo Leoni e di Soro Pirino.
Il quarto periodico fu L’Epoca, fondato da un Comitato liberale dell’opposizione per sostenere la candidatura di Francesco Sulis, al quale se ne affidò la direzione, insieme al Manca Leoni, che ne fu il solerte redattore. Il Sulis, in urto col partito clericale, non poteva essere appoggiato dall’Osservatore, né voleva esserlo dal Credente perché apertamente repubblicano. L’Isolano, con furberia, tirò a sé il Credente e l’Osservatore; e tutti e tre si misero d’accordo, pubblicando un manifesto, in cui s’invocava la conciliazione e la concordia, in nome di Ferracciu che proponevano candidato alla deputazione di Sassari.
L’accordo però non fu troppo leale. Il 15 Novembre ebbero luogo le elezioni con tre candidati: il ministeriale Domenico Buffa, il teologo Marongiu e il Prof. Sulis. Era stato messo in disparte il Ferracciu, perché candidato a Tempio. Avvenne il ballottaggio fra il Sulis e il Marongiu, e quest’ultimo uscì vincitore dall’urna, col trionfo completo dal partito clericale. Il Sulis era stato preso di mira per il voto dato alla legge Siccardi che aboliva le decime.
L’elezione del Marongiu venne contestata e annullata alla Camera, perché il vincitore era stato nominato Canonico Capitolare ed in sua vece riuscì eletto in seguito Domenico Buffa, appoggiato fra gli altri dal sindaco Giuseppe Sotgiu.
I quattro periodici non tardarono ad estinguersi, e si tirò innanzi con fogli alla spicciolata, intermittenti, tanto per tener viva la lotta fra moderati-conservatori e progressisti-repubblicani. (I radicali e i forcaioli non erano ancora in-ventati!).
Negli anni 1858 e 1859 la cittadinanza sassarese fu vivamente impressionata dalla notizia della soppressione della Corte d’Appello (che pur troppo venne tolta) e dell’Università degli studi, per la quale le proteste furono energiche – tanto che il Consiglio comunale rassegnò le dimissioni nel Dicembre del 1859.
Regio commissario. – Con Decreto regio del 15 Gennaio 1860 fu sciolto il Consiglio comunale, e nominato Commissario il Consigliere del Governo Don Francesco Delitala, fino alle elezioni generali, ch’ebbero luogo in base alla nuova legge. Il Consiglio, anziché di 40 membri, venne composto di 30, e la Giunta ridotta da 8 a 6 membri.
Sindaco Don Simone Manca
Diverse dal 1860 al 1863. – E così si venne al 1860. Nel mese di Marzo fu nominato sindaco Don Simone Manca – gentiluomo e patriotta sassarese di antico stampo. Egli rifuggiva dalle lotte di partito, intento solamente a introdurre nell’amministrazione del comune tutti quei miglioramenti e riforme che valevano a tener alto il decoro del suo paese. Consigliere comunale fin dal 1836, sindaco nel 1844 sotto il governo assoluto, Don Simone aveva sempre portato la nota geniale, e quella signorilità di modi che gli attirarono la stima ed il rispetto di tutti, anche degli stessi avversari, poiché neanche lui potè sfuggire agli attacchi ed alle censure.
Nel Gennaio del 1861 il Consiglio Comunale si riunì in seduta straordinaria per conferire la cittadinanza sassarese al generale Garibaldi e fu lo stesso Don Simone che si recò a Caprera insieme ad una deputazione municipale per offrire il relativo diploma all’eroe dei due mondi, il quale da pochi giorni era reduce dalla gloriosa spedizione dei Mille a Marsala.
Fin dal 1860 erasi pubblicato dalla tipografia Azara il Popolano – un periodico settimanale un po’ malvino, che cangiò più volte di colore, come cambiavano i suoi redattori, ma che pertanto ebbe la vita di una dozzina d’anni.
Col 15 Aprile del 1861, dopo l’annessione della Sicilia e del Napoletano al Piemonte, Vittorio Emanuele II assunse il titolo di Re d’Italia.
Quando in quell’istesso anno, da un capo all’altro dell’Isola, corse la voce della cessione della Sardegna alla Francia, molti libri ed opuscoli si scrissero dai sardi, specialmente contro Gustavo Jourdan che la denigrava. Giuseppe Mazzini, più di ogni altro, fu quegli che gridò contro il vergognoso baratto, e tra le sue scritture notasi l’articolo da lui pubblicato nell’Unità italiana di Milano del Giugno 1861, ristampato per intiero a Sassari, in un foglio volante. Ne riporto alcuni brani perché vi è citato uno scritto di un nostro concittadino:
«…Negli anni 1846 e 1847 un quinto della popolazione sarda mendicava da Cagliari a Sassari… Un secolo e mezzo di dominio di Casa Savoia non ha conchiuso che a provocare l’insulto del francese Thouvenel: la condizione della Sardegna è condizione di barbarie che è vergogna al governo sardo. Il governo non curò l’Isola che per le esazioni. Io rimando chi non crede ai viaggi di un testimonio non sospetto (Alberto Lamarmora); alla collezione degli Editti e pregoni pubblicati a Cagliari sul finire del secolo scorso; poi all’opuscolo di Salvatore Manca Leoni di Sassari (Le nuove leggi e la Sardegna), e all’altro di G. B. Tuveri (Il governo ed i comuni). La Sardegna ha una storia di dolori, di oppressioni, di arbitri governativi, non ancora raccolta: ma le pagine sconnesse ne appaiono dovunque si guardi tra documenti e ricordi…».
Nell’Ottobre del 1861 un battaglione mobile della Guardia Nazionale di Sassari, sotto il comando del maggiore Nicola Ferracciu, partì per Orvieto, dove per tre mesi fu fatto segno a dimostrazioni di stima ed affetto da quella popolazione. Gli orvietani, in attestato di gratitudine, elessero a deputato il Ferracciu nella XI Legislatura.
Il 31 Marzo 1861 fu aperta al pubblico la succursale della Banca Nazionale, sotto la direzione del commerciante Sebastiano Brusco.
Nel Giugno la città di Sassari ebbe la visita dei Reali principi Umberto ed Amedeo, a cui si fecero speciali festeggiamenti.
Due anni dopo venne inaugurata la statua di Domenico Alberto Azuni. In seguito si discussero nel Consiglio Comunale i due progetti dell’Acquedotto e della illuminazione a gas. Si deliberò di lastricare diverse vie, e di acquistare il palazzo del Conte di S. Giorgio (dove attualmente sono le due Preture) per riadattarlo a Casa Comunale e per costruirvi un nuovo teatro di dimensioni più vaste.
Don Simone Manca rassegnò le dimissioni nel Febbraio del 1863. Quando si avvide che il nuovo spirito dei tempi cercava di trascinarlo nelle lotte politiche, abbandonò serenamente il posto che occupava da tre anni, e si ritirò a vita privata, dedicandosi all’arte del disegno, che non aveva mai abbandonata.
Sindaco Stefano Usai
Diverse dal 1864 al 1870. – Con regio decreto del Febbraio 1864 venne nominato Sindaco l’Avv. Stefano Usai.
L’anno 1864 fu notevole per i disordini del 22 e 23 Agosto, causati dalla rivolta del ceto dei zappatori contro la legge del Dazio consumo che colpiva il prodotto del vino. I tumultuanti deliberarono d’inviare a Torino per loro rappresentante il zappatore Antonio Luigi Mura, soprannominato Favarrosto, dandogli a compagno il frate francescano Garzia, per metà commediografo, per metà pittore, e di spiriti liberali. La mattina del 22 Agosto una moltitudine minacciosa invase il palazzo di città, al grido di: Abbasso il Municipio! fuori i consiglieri! La stessa scena fu ripetuta l’indomani al mercato, invitando gli introduttori a rifiutarsi al pagamento dei diritti di suolo.
Cessata la dimostrazione cominciarono gli arresti e una quarantina di individui furono cacciati in prigione, compresi il zappatore Favarrosto e il frate Garzia, non appena ritornati dal continente. La sezione di accusa della Corte di Appello ordinò infine la scarcerazione, con sentenza del Marzo 1865.
Di questo trambusto si diede colpa (secondo il solito) da taluni ai così detti mazziniani, e da altri ai così detti moderati: eterna altalena di due partiti, a cui si addossavano tutti i mali e tutti i beni, a seconda il colore dello spirito di chi giudicava. Fatto è, che le cause bisognava ricercarle nell’eterno cozzo tra le vecchie e le nuove idee; nel Consiglio Comunale che si voleva più moderno; nei rancori antichi che si erano ridestati dopo il cholera; nel puntiglio degli operai ch’erano in disaccordo nella Società di mutuo soccorso, e nella intransigenza ostinata dei due gruppi, che rappresentavano il polo nord e il polo sud, i quali vedevano tutto nero o tutto rosso.
Nel Luglio del 1866 venne inaugurata la illuminazione a gas, la quale sostituì i famosi fanali ad olio impiantati nel 1825.
Nell’Agosto del 1868 si aprì al pubblico la succursale della Banca del popolo di Firenze, il secondo istituto bancario impiantato a Sassari. Nello stesso anno si lamentò la spaventosa invasione delle cavallette, le quali devastarono la campagna sassarese. Basti il dire, che in diciassette giorni (dall’Aprile al Maggio) si bruciarono 183mila chilogrammi di cavallette, con una spesa di oltre 32.000 lire.
Nel Marzo del 1869 la città ebbe la visita della famosa Commissione d’inchiesta per la Sardegna, composta di Depretis, Sella, Tenani, Ferracciu e Mantegazza. Vi furono visite, interviste, ecc.; ma non si fece nulla. La relazione si aspetta ancora! – In questo stesso anno vide la luce un nuovo periodico: Il progresso, diretto da Secchi Dettori. Un cappello ad una lettera di Giuseppe Mazzini, diretta ai giovanissimi figli di Soro Pirino, e riportata nel Progresso con firma del tenente Francesco Rugiu, fu causa dell’arresto di costui, che finì per rinunciare alle spalline.
Nel 1870 venne costituita la Società filarmonica sotto la presidenza di Pietro Saccomanno e la direzione di Luigi Canepa. L’inaugurazione solenne ebbe luogo nell’Aula dell’Università il 21 Maggio.
Il 20 Settembre ebbe luogo una dimostrazione popolare per salutare l’avvenimento dell’entrata delle truppe italiane nella città di Roma.
Nuova Italia e giornalismo. – I giornali – rarissimi prima del 1848, ed in seguito quasi privativa delle sole città capitali fino al 1870 – penetrarono più numerosi nelle città di provincia, dopo l’annessione delle Romagne all’Italia, né tardarono a moltiplicarsi in modo sorprendente.
L’ordinamento del servizio postale, le regolari corse dei piroscafi, l’impianto delle strade ferrate e del telegrafo, avevano largamente contribuito alla unità italiana, facilitando la trasmissione e lo scambio del pensiero da un capo all’altro della penisola, con la forza del vapore e la rapidità dell’elettrico.
Ma più che l’elettrico, più che il vapore, meravigliosa e benefica fu la invenzione della stampa, la quale più tardi doveva dar vita a quel giornalismo che strinse in un fascio i popoli di tutto il mondo civile.
Era pago lo storico del passato quando poteva strappare una notizia ad un solitario cronista, ad una logora pergamena, ad un’antica scrittura rinvenuta fra le carte di un archivio di Stato, o fra gli scartafacci di uno sgangherato Armadio Comunale. Egli faceva tesoro del fatto più insignificante; il quale, appunto perché raro, stuzzicava la curiosità dello scrittore e del lettore insieme.
Ma questo misero corredo di documenti, in massima parte, non era composto che di relazioni o rapporti ufficiali – note di Governi, di Municipi, o di chiostri, non sempre veridiche, né spassionate, le quali si prestavano a interpretazioni diverse. La voce del popolo non giungeva fino a noi; poiché al popolo, tenuto come schiavo, nessuno dava retta, sdegnando di accoglierne i lamenti e le proteste per tramandarli alla storia. La storia era tutta per i santi, per i monarchi, per i cavalieri di ventura.
Accade oggi, ed accadrà domani, ben diversamente. Per mezzo del giornalismo verrà di molto accorciata la via delle indagini e della critica. Lo storico, con mente serena, potrà trarre dal seno dei giornali la verità tutta intiera; egli potrà strappare ai fatti il velo delle passioni politiche e private, per analizzare ogni avvenimento.
Giorno per giorno, ora per ora, noi possiamo seguire la storia delle nazioni incivilite sulle pagine dei mille giornali d’ogni colore, che si pubblicano quotidianamente. In essi si svolge la storia dei Governi e la storia dei popoli. Vi si trova, è vero, la stessa pietanza cucinata in cento salse, la stessa canzone musicata su cento motivi; ma lo storico dell’avvenire, lontano da quei tempi, spoglio da ogni passione, potrà con animo retto e giudizio sereno fare la cernita sapiente per presentare i nudi avvenimenti sotto la loro vera luce.
La diffusione meravigliosa del giornalismo ha però prodotto uno strano fenomeno: ha reso più freddo l’animo, e meno intensa la curiosità del pubblico. I fatti si succedono e si ripetono; la notizia d’oggi fa dimenticare quella di ieri; e così ci sentiamo scettici e quasi indifferenti, non solo sul campo delle discussioni politiche, ma ancora di fronte alle innumerevoli sventure che la cronaca raccoglie e registra. Il pubblico si stanca, e finisce per annoiarsi al cospetto di attori, che gli recitano ogni giorno la stessa commedia.
Quando i giornali erano pochi, l’ansietà di leggerli rasentava il delirio; ora che sono troppi, essi ci lasciano freddi, poiché il nostro raziocinio si dibatte e brancola nel tenebroso campo di cento opinioni diverse, spesso sincere, più spesso simulate a scopo elettorale. Il giornale non è quasi mai l’espressione sincera di un popolo; è la espressione interessata di un partito.
Non pochi ammaestramenti noi possiamo trarre dalla raccolta annuale dei giornali politici e quotidiani.
Provatevi – come ho fatto io per poter scrivere queste pagine-a rileggere di seguito, giorno per giorno, tutti i periodici di un trentennio e vedrete quant’amarezza, quante disillusioni, quanto scetticismo vi turberanno l’anima, dinanzi a tante conversioni di fede, a tante variabilità di opinioni, a tanta incostanza di caratteri, a tante trasformazioni sorprendenti e inaspettate.
Quanti ideali distrutti, quante aspirazioni diacciate, quante promesse scritte sulla sabbia, in quelle pagine morte che rispecchiano la vita di un mezzo secolo! Al voltar di ogni foglio, noi vediamo i molti che cambiarono di colore e di propositi; vediamo i molti che modificarono le proprie opinioni, passando da destra a sinistra, o da sinistra a destra; vediamo liberali che non compresero la libertà; repubblicani che rinnegarono il popolo; moderati incapaci di moderazione; progressisti che fraintesero il progresso; socialisti che mistificarono la società; clericali che vissero senza religione. E tutti sfilano, con veste di Arlecchino, sotto gli occhi delle turbe che aspettano rassegnate il giorno della giustizia e della redenzione.
Non meno rapidamente sfilano sotto i nostri occhi gli altri avvenimenti, registrati senza tregua dalla cronaca cittadina: le disgrazie, i delitti, le rapine, gli adulterii, le truffe e le malversazioni in alte e basse sfere.
Ma più vivamente ci colpiscono i cenni necrologici inseriti in ogni pagina: i nomi di tanti ardenti patriotti, di cittadini onesti, di riverite notabilità, di cari congiunti, di amici carissimi, i quali corrono affannosi verso la vecchiaia, scendono ad uno ad uno nel sepolcro, spariscono nell’ombra, e vengono ben presto dimenticati, dietro l’annunzio di un morto nuovo, o d’un nuovo funerale.
Paolo Martinelli, Giomaria Sussarello, Pasquale Tola, Francesco Sulis, Giuseppe Giordano, Antonio Manunta, Pasquale Umana, Don Simone Manca, Gavino Soro Pirino, Monsignor Diego Marongio, e cento altri benemeriti ch’ebbero sì larga parte nel lungo periodo del risorgimento nazionale, tutti sono scomparsi. Nella rapida rassegna dei giornali, io li ho veduti combattere strenuamente con la penna o con la parola; li ho seguiti nella via della volubile popolarità e li ho veduti sparire ad uno ad uno, fra le pagine del volume che andavo sfogliando. Non rimane di loro che l’eco degli attacchi ingenerosi e delle volgari insolenze, lanciate sul loro capo nei giorni dell’ira e della lotta partigiana; – eco di voci lontane e vicine, che risuonano nell’anima nostra come un rimprovero, come un’accusa, come lo schiaffo di un morto sulla guancia di un vivo.
Questa mia lunga disgressione valga a spiegare il perché, dal 1870 in poi, io non farò che segnalare brevemente gli avvenimenti più importanti della cronaca cittadina, senza fermarmi a discutere o a commentare gli attacchi e le accuse che i diversi partiti si lanciarono a vicenda, in nome della patria o dell’umanità.
I brevi giudizi, che porterò sugli uomini, devono intendersi come un’opinione personale di chi scrive. La storia non c’entra per nulla!
La vera storia è tutta là: nei giornali cittadini; ma noi contemporanei non sappiamo leggerla. Ai soli storici dell’avvenire è riservato il compito di crogiuolare i fatti, per separare la verità dalle scorie che in gran parte ce la nascondono.