Gli olivi in Sardegna
Si affermò ripetutamente che la coltivazione degli olivi nell’isola dovette essere antichissima. Il Cossu afferma, e lo ripete il Manno, che essa era praticata fin dal tempo dei Giudici, e cita, in appoggio al suo asserto, una carta di donazione fatta nel 1156 da Barisone di Arborea, nella quale sono menzionati i vigneti e gli oliveti dei Giudici.
Il fatto è che, se pure gli ulivi esistevano nel suddetto anno, essi scomparvero poi in un attimo; poiché, né di olio, né di uliví mai si parla nei Codicí sassaresi del 1294 – né di ulivi o d’olio si fa mai menzione neppure cento anni dopo.
II P. Gemelli crede che ne sia stata introdotta la coltura dai genovesi e dai pisani, subito dopo la scacciata dei saraceni.
Realmente questi famosi olivi cominciarono a far capolino verso la metà del secolo XVI, ma più in parole che in fatti. L’Arquer fra il 1533 e il 1549, scriveva che solo da pochi anni si cominciava nell’Isola ad innestare oleastri. Circa mezzo secolo dopo, verso il 1580, le cose erano allo stesso punto, poiché il Fara scriveva queste parole: «L’Isola non produce olio per incuria degli abitanti; se ne introduce dalla Liguria ed isole Baleari. Per le lampade è usato il grasso animale e l’olio di lentischio che è abbondantissimo. Da pochi anni però cominciano i sardi a coltivare l’olivo, innestando le selve di olivastri che in molte parti si trovano – e le loro fatiche sono compensate».
Strano invero quel da pochi anni, scritto da due storici degni di fede alla distanza di quasi mezzo secolo!
Sotto il regno di Filippo III, nel Parlamento convocato a Cagliari l’anno 1602, fu fatta la lodevole proposta d’incoraggiare la piantagione degli olivi, di cui incominciavano a curarsi persone autorevoli e distinte.
Il Cossu accenna alle Prammatiche del 17 Febbraio 1572, in cui il Viceré ordina d’innestare oleastri per formare oliveti; e ai bandi del 1591 e 1596.
Nelle Corti del 1602 si chiedeva, che ogni vassallo pagante feudo fosse tenuto ad innestare ogni anno dieci alberi, sotto pena ai disubbidienti di 40 soldi da pagarsi al signore del luogo.
La proposta si svolse di nuovo nel Parlamento sardo del 1625, in cui si stabilì di far venire da Valenza e da Maiorca 50 uomini capaci d’innestare olivastri, coll’obbligo di prendere ciascuno 10 sardi come apprendisti, in modo che in un anno si potessero avere 500 persone pratiche (Cossu).
Il P. Gemelli fissa nel 1624, sotto il Viceré Vivas, l’epoca memoranda dell’introduzione dell’olivo, ed io credo che sia nel vero, poiché gli oliveti innestati verso il 1602 non poterono dar frutti rilevanti che dopo una trentina d’anni.
Dagli Stamenti fu stabilito che in tutte le incontrade e ville e luoghi nel cui territorio erano oleastri, ogni suddito pagante fuoco fosse obbligato a innestare ogni anno dieci alberi di oleastri in ulivi. Questi alberi poi diventerebbero proprietà di chi li avesse innestati, col solo obbligo di pagare un tanto ai signori del luogo.
Ma il Re, invece dei 50 uomini pratici che era stato stabilito di far venire da Maiorca e da Valenza, credette sufficiente il numero di venti innestatori i quali rimasero nell’isola soltanto tre anni.
Si ordinò pure in quel tempo che i prelati minacciassero la scomunica a coloro che appiccavano fuoco agli oliveti e ciò per essersi verificato che siffatta scomunica aveva preservato dagli incendi un grande tenimento innestato dall’Arcivescovo di Oristano.
Nelle Prammatiche del 1640 si prescrive: «che tutti i possessori di vigne e tanche siano obbligati a circondarle di alberi di ulivo, piantandone ogni anno 30 alla distanza di 15 palmi l’uno dall’altro; che i baroni, feudatari e signori dei terreni provvedano ogni anno i molini necessari per far l’olio, e dai vassalli non possano pretendere più del decimo; che gli oliveti non possano in alcun tempo esser venduti per debiti civili o criminali, né per debito verso il signore del terreno; che non si accenda fuoco a cinque miglia dagli oliveti, senza chiedere licenza al Giudice Ordinario del luogo, sotto pena di sette anni di galera, oltre il risarcimento del danno in ragione di 10 ducati per albero».
Questa piantagione obbligatoria dovette effettuarsi da molti proprietari di vigne in Sassari, ed infatti io trovo in una denunzia ai Barracelli del 1670, che ad un proprietario erano state rubate circa quattro carrittas di olive, da cinque alberi piantati nella sua vigna.
Malgrado tante attenzioni, e i nuovi bandi sugli oliveti del 1658 e 1688, la piantagione degli ulivi andava a rilento. Il Viceré duca di S. Giovanni, sotto Carlo II, apportò sensibili miglioramenti alla coltura olearia con pregone del 23 Agosto 1702. Pochi anni prima erasi fissato un diritto di 6 soldi e sei danari per ogni barile d’olio, a favore dell’erario, e in parecchi luoghi era stata introdotta la decima, in ragione del vigesimo sull’olio.
Sotto il Governo della Casa Savoia si pensò a rimettere in vigore, dopo averli riveduti e corretti, i vecchi provvedimenti sugli ulivi.
Con R. Viglietto del 15 Febbraio 1773, Carlo Emanuele III diede istruzioni per l’aumento e miglior coltura degli oliveti.
Il Manca dell’Arca, già citato e competente in materia, scriveva nel 1780, che in Sardegna, ma specialmente a Sassari, si conoscevano tre specie di buone olive: le servigliane grosse e buone da mangiare confettate, le servigliane e le majorchine piccole, più tardive delle altre.
Scrive il Cossu che al suo tempo (1789) «molte persone illuminate, zelanti e facoltose, eransi applicate a formare oliveti, e specialmente a Sassari, Iglesias, Oristano, Bosa, Alghero e Cuglieri, nei cui territori il numero degli ulivi era complessivamente ragguagliato al numero di 250.000». Lo stesso autore ci dice che, il prodotto non corrispondeva però per l’intero consumo «poiché il mercante era obbligato a provvedersi d’olio fuori Regno». Il prezzo era aumentato di tre quarti, poiché allora vendevasi a uno scudo per quartana, mentre prima era a mezzo scudo, e tendeva ad aumentare di prezzo.
Nella Barracelleria del 1793-94, composta di 62 Capitoli, al Cap. 17 è detto che los Olivares devono pagare 3 lire per albero ai Barracelli quando ascendono a 300, e quando sono di meno, in proporzione; per los Olivares in mezzo alle vigne, 4 reali; per 200, 8 reali.
Con R. Decreto del 3 Dicembre 1806 Vittorio Emanuele I escogitò un nuovo mezzo per incoraggiare l’industria olearia; egli concesse la nobiltà ereditaria a chi piantava 4.000 olivi – e minacciò la galera a chi distruggeva un albero o un innesto d’olivo, oppure diroccava i muri di cinta degli oliveti innestati. Accordò inoltre diritto ai non nobili di erigere fide commissi sopra i novelli oliveti da 500 alberi; dominio pieno ai fidecommissari sopra gli uliveti piantati in quei terreni; facoltà a chicchessia di cingere con muri le proprietà; preferenza sopra i censi delle manimorte; obbligo di cingere di olivi le chiuse dei terreni.
Gli oliveti a Sassari
Nell’agro sassarese la coltivazione degli olivi è antichissima (scrive l’Angius), e non vi ha dubbio che sia stata praticata dopo il secolo XII, quando nella provincia del Logudoro si stabilirono i Doria, i Malaspina ed altri genovesi. Ma per l’infelice condizione dei tempi che sopravvennero essa non poté progredire.
Anche il Manno, in fondo in fondo, è di opinione che ai genovesi, più che alle patriottiche deliberazioni degli Stamenti, più che ai premi e alle pene stabilite più tardi, debbasi lo sviluppo di questa coltivazione che dava un prodotto lucroso – poiché dove c’è lucro c’è sempre il genovese.
Gli Statuti di Sassari, in cui si parla di vigne e di terreni aratori non fanno mai menzione di olivi, come già affermato, né di olivastri, né di olio – quindi è chiaro che nel 1294 oliveti non ne esistevano da noi, ed anche nel secolo susseguente erano sconosciuti.
In una Convenzione coi Barracelli del 1596 si menzionano vingias, jardinos, ortos, cannedos, juncargios, cungiados, domos et pinnettas, e mai oliveti; dunque questi non esistevano ancora, o si era nel periodo dei primi ulivi piantati nelle vigne.
Pare dunque, che gli oliveti in Sassari presero veramente incremento nel secolo XVII (e più precisamente verso il 1630) dietro le diverse proposte dei parlamenti sardi, ed i pregoni dei vari Viceré, da noi altrove menzionati. In una lettera del 21 Agosto 1761, del Ministro al Viceré, si parla di mezzi da tentare per la coltivazione degli olivi e dell’esperienza quasi del tutto infruttuosa della missione dei noti onegliesi.
Nella citata relazione del Marchese della Planargia, notasi a proposito degli ulivi, che essi non crebbero che a Sassari, Bosa e Cuglieri, e altrove non attecchirono, malgrado i premi e le pene stabilite; e per ottenere lo sviluppo delle piantagioni era quindi difficile proporre temperamenti migliori dei premi e delle pene già da tempo provati, e già da lunga esperienza riconosciuti inefficaci.
In una lettera del Ministro al Viceré, del 14 Aprile 1773, leggesi: «Progettate che saranno dalla Giunta di Sassari (giusto il R. Viglietto del 15 Febbraio) gli Stabilimenti che la medesima crederà più opportuni per la più adattata coltura degli olivi e la miglior formazione degli olii, S. M. vedrà volentieri il piano che vorrà adottarsi». Come rilevasi, il Governo si rivolgeva a Sassari, come al quartiere generale degli oliveti dell’isola, perché studiasse mezzi di perfezionamento della nuova industria agricola.
In varie sessioni della Giunta di Sassari per gli ulivi, tenute in seguito al R. Viglietto 15 Febbraio 1773, concernente l’aumento e miglior coltura degli oliveti nell’Isola, si trattò l’importante questione. La proposta del Re era quella di «spedire a carico della R. Cassa alcuni uomini di Oneglia e di Nizza, ed ove il bisogno si riconoscesse, far costruire in Sassari un edifizio, ossia torchio d’olio, nella miglior forma conveniente per servir di modello agli altri».
La Giunta su nominata era presieduta dal Governatore Alli Maccarani. Dopo avere esaminati i capitoli emanati al riguardo nel 1624 e 1700, essa riconobbe che per quanto concerneva l’innesto degli olivastri non si era raggiunto lo scopo. La piantagione degli ulivi poteva dirsi riuscita soltanto in Sassari, Bosa, Cuglieri ed Oristano; in Alghero si cominciava; in Sorso vi erano solamente due oliveti; uno in Ittiri, uno in Muros, uno in Nuoro; altrove nulla.
Si notò che mancavano i coltivatori e i capitali per questa coltivazione dispendiosa, che non dava lucro veruno per molti anni; che gli agricoltori occupati nella preparazione delle terre per la semina, nella mietitura e coltivando anche alla sfuggita le vigne, non potevano dedicarsi agli oliveti.
Si propose di concedere terreni in enfiteusi con canone tenuissimo, facendo rivivere gli antichi privilegi e i premi a favore dei coltivatori, e istituendone dei nuovi. Si dichiarò che in Sassari gli olivi si coltivavano già perfettamente e non si sentiva proprio il bisogno di insegnamento alcuno. Si rilevò pure che i torchi di Sassari rispondevano allo scopo e somigliavano ai migliori del continente, e perciò non altro si chiedeva. «Ove però il Governo volesse far costruire un torchio mosso da forza idraulica, coi recipienti e attrezzi necessari per estrarre l’olio dalle sanse e raccogliere gli olii di seconda qualità o grossolani, che andavano quasi perduti, la cittadinanza sassarese ne sarebbe riconoscente».
Questa Relazione della Giunta per gli olivi del 1773, dimostra che in tale anno l’industria dell’olio, in Sassari, aveva già raggiunto una certa perfezione, mentre nel restante dell’Isola si era ancora indietro.
Spigolature sugli oliveti
Il Vico nel 1639 parla delle numerose vigne e giardini di Sassari, ma non fa menzione di oliveti. Nel registro della Confraternita di S. Croce, in cui sono notati testamenti e donazioni, parlasi spesso di vigneti, di orti e giardini, ma non trovasi menzione che di un solo oliveto, sito in Quiguizu, e ciò nell’anno 1746.
Il Gemelli nell’opera già citata, del 1776, vanta gli oliveti di Sassari, osservando che gran parte d’Italia non ne ha, né potrà mai averne.
Fra i più distinti coltivatori egli vanta Don Diego Manca, il quale piantò gli alberi a maggior distanza l’uno dall’altro; ciò che pure aveva fatto Don Simone Farina e con quel mezzo si vide raddoppiato il prodotto dell’olivo.
In una visita al Prado nel 1794 di un Delegato e periti per accertare i danni cagionati dall’introduzione del bestiame, si notano specialmente «li recenti oliveti che trovansi mezzo distrutti, impediti di poter prosperare, con un continuo scoraggiamento della nostra industria».
Scrive il P. Napoli nel 1814, che Sassari abbonda talmente di oliveti e vigne, che tutto all’intorno si stendono per due, tre e più ore di strada.
Eduard Delessert nel suo libro, Six semaines dans l’île de Sardaigne, pub-blicato nel 1855 così esprime la sua ammirazione: «Il faut venir à Sassari pour voir de beaux oliviers». Aggiunge però, che quasi tutti appartenevano ai preti ed erano trascurati dai loro proprietari.
Paolo Mantegazza nel 1869 scriveva sui nostri oliveti queste parole alquanto poeticamente esagerate, ma rispondenti nella sostanza alla verità: «Per andare a Sassari ascendete un monte tutto pieno di magnifici olivi, coltivati colla stessa sollecitudine e tenerezza con cui si coltiva un orto cittadino. Io percorsi quei boschi d’argento nel tempo della raccolta e vidi liete schiere di fanciulle e di ragazzi che raccoglievano il frutto in lindi canestri (?), e a quando a quando interrompevano il lavoro per cantare e ballare. Parevano stormi di passerotti vivaci e protervi, e raccoglievano le olive colla stessa cura e lo stesso amore con cui si farebbe bottino di cosa carissima e preziosissima».
Pur troppo anche questa grande ricchezza è venuta oggi a mancare. Gli oliveti sono oggi decaduti dall’antico splendore. La scure vandalica degli speculatori ne ha atterrato e ne va atterrando gran numero per farne carbone o legna da ardere, poiché molti poveri proprietari, caduti in miseria, sono costretti a vendere le piante, non avendo i capitali necessari per coltivale.
L’olio di Sassari
Abbiamo già detto che in Sassari si faceva olio di oliva forse fin dal tempo dei Doria e dei Malaspina, e che vuolsi che i Giudici lo conoscessero. Il fatto è che gli olivi cominciarono veramente a conoscersi verso la seconda metà del secolo XVI, ma il loro prodotto dovette essere scarso e rarissimo. Il popolo continuò per lungo tempo a servirsi dell’olio di lentischio, alla cui confezione molti eransi applicati, poiché numerosi erano i boschi di quelle piante ed ognuno poteva coglierne le coccole, anche senza il permesso del padrone del terreno. E fu un gran bene per la povera gente, che non poteva avere facilmente né il grasso di maiale, né le candele di sego, di cui i signori si servivano, rispettivamente, per la cucina e per l’illuminazione.
L’uso dell’olio di lentischio dovette durare a lungo, anche per opera di speculatori forestieri. Infatti leggo in dispacci della Segreteria di Stato al Viceré, in data 16 Novembre 1831, alcune provvidenze sulle nuove domande fatte dalla Casa di Commercio Macintosh per la privativa accordatagli dell’esportazione dell’olio di lentischio; la quale si voleva estesa anche al frutto stesso di detto arboscello, e, in difetto, venisse proibita essa esportazione.
Diamo qualche notizietta sull’olio di oliva, spigolandola qua e là dai libri di Archivio.
1595. – Interessantissima e significante è la deliberazione della Giunta (colloquio) del 18 Dicembre. Leggo in essa, che, per la mancanza in Sassari di olio di oliva (falta de ogiu de oliva) e dietro il patimento del pubblico perché non se ne trovava, i Consiglieri deliberano di conchiudere il contratto col mercante che offriva il danaro all’8% per acquistare l’olio in Cagliari, portando di là la provvista, e mandando i carrettieri (sos carruargios) per ritirarlo, pagando il costo dell’olio, l’interesse del denaro, i carrettieri e tutte le altre spese, e fissando il prezzo di vendita in Sassari. Si delega per l’acquisto una persona (unu curreu a posta) perché in Cagliari non si aumenti il prezzo dell’olio dietro la richiesta di Sassari.
E’ indubitabile che in Cagliari era un deposito d’olio fatto venire dall’Italia o dalla Spagna.
1597 (19 Dicembre). – Ordinazione del Governatore. Stante penuria e necessità dell’olio d’oliva, si delibera che si scarichino a Portotorres le 4 carrette che sogliono portarsi a questo porto.
1627. – Si pagano Ls. 14 per tre libbre e due cartichios de olj de oliva, in ragione di 4 lire e 1/2 la libbra, per tenere accesa la lampada del Santuario di S. Gavino (a 4 lire e 1/2 il Cartuzo, come dal Consiglio Maggiore del Giugno 1614).
Nel 1636 trovo che il Municipio faceva Grida pubblica per la vendita di alcuni generi, fra i quali dell’Oly de oliva, a istanza del negoziante, fissando il prezzo che voleva, per venti giorni, senza incorrere in alcuna pena. Il negoziante d’olio più importante era allora il Patron Manganaro, napolitano, e dopo di lui Tomaso Langasco e Gio. Antonio Viale, genovesi, domiciliati a Sassari; il prezzo fissato al pubblico era di L. 4.10 soldi o 12 alla lliura; dal Manganaro ne acquistò pure Pedro Vixer (?) che rivendette al detto prezzo. Io credo fosse olio di Sassari, non della riviera, poiché gli oliveti dopo 30 anni dovevano dare frutto abbondante.
1719. – Stante il bisogno di spedire olio alle piazze di Alghero e Castellaragonese, 41 proprietari offrono per conto di S. M. 292 barili di olio, al prezzo di cinque scudi e quattro reali al barile. Fra questi proprietari noto Don Jaime Manca per 55 barili, il Barone di Sorso per 50, Don Matteo Martinez per 20 ecc.ecc.
1720 (Settembre). – Si pagano dal Municipio Ls. 45.16.6 per olio e candele somministrate alle Truppe spagnuole.
1765. – Il Ministro scrive al Viceré: «È stato qui a Torino nel passato Settembre certo Monsieur Umbert, francese e negoziante in Oneglia, esperto commerciante, e gli ho suggerito che recandosi in Sardegna avrebbe potuto riconoscere sopra luogo, vari capi di vantaggiosa speculazione, e singolarmente, a riguardo degli olii, giacché la quantità di olivi che costì trovansi potevano aprirgli il campo ad un utilissimo negozio, quando si fosse procurato di migliorare la manifattura. Lo assicurai che avrebbe incontrato presso il Governo tutta l’assistenza e facilità possibile, promettendogli di accompagnarlo con una sua lettera se si decidesse a partire per costì».
Lo stesso Ministro raccomandava pure al Viceré certo Agostíno Boggiano, negoziante ad Alassio, che veniva in Sardegna per suoi interessi.
1766 (Marzo). – S’imbarcano nella tartana di Patron Filippo Ghigliò, francese, 190 barili d’olio d’oliva diretti a Cagliari (valore di circa 1.450 scudi).
1771 (2 Gennaio). – Pregone per tutti gli abitanti delle città o delle ville perché non ardiscano mandar fuori olio di oliva, dai molini di fuori, senza permesso del Magistrato Civico, sotto pena di perder l’olio.
1779. – Il Cossu afferma che l’olio di Sassari era abbondantissimo, e segnala quello di Serra Secca come il più prezioso di tutti, poiché oltre alla dolcezza e grassezza «non ha il menomo fetore (!) ed ha il vantaggio di non bruciare il palato (!), sembrando che non passi, nel condire le vivande, differenza alcuna tra il frutto e l’olio di questo luogo, tanto è di gusto perfetto».
1780 (18 Luglio). – Per la mancanza di olio di oliva presso i venditori al minuto, il Municipio delibera di farlo vendere a 3 soldi e 1/2 il quartuccio e di far minorare e raffinare la detta misura dallo stagnaro Stefano Viglino.
1782 (7 Ottobre). – I Consiglieri espongono al Governatore, che essendo stato in quest’anno scarso il raccolto dell’olivo, e scarso quindi l’olio, dovesse aumentarsene il prezzo. «Siamo informati (dicono) che in Sassari, sebbene esista ragguardevole partita d’olio vecchio, la maggior parte di esso è già accaparrata da negozianti per imbarcarlo; e siccome coll’imbarco crescerà di prezzo a danno dei cittadini e dei sardi, supplichiamo perché vi si ponga riparo con un decreto».
Nel Febbraio del 1784 si fece un Pregone perché l’olio al minuto non si potesse vendere più di 3 soldi e 4 denari il quartuccio.
1794 (24 Novembre). – Scarseggiando il raccolto dell’olivo, la Città ha timore che non si abbia la quantità necessaria d’olio per il consumo locale.
1813 (Febbraio). – Il Municipio supplica il Re perché sopprima la tassa di 6 reali per barile, imposta sull’olio che si spedisce al Continente fin dal Giugno del 1807.
1814. – Il P. Napoli nota, che l’olio di Sassari, oltre il necessario per il consumo interno, si somministra in gran copia ad altri luoghi.
– Il Magistrato Civico, il 4 Dicembre 1815, delibera che l’olio venga venduto a 4 soldi e 4 cagliaresi il quartuccio (circa L. 1.80 il litro!).
1822. – I Consiglieri supplicano il Re, esponendo che da alcuni anni i proprietari sono sconfortati, perché le troppe spese per la confezione dell’olio non sono in rapporto col ricavo.
Quando l’esportazione era libera (dicono) si aveva un lucro certo; e ricordano come il Re predecessore suo fratello Vitt. Em. I, il 3 Dicembre 1806 avesse pubblicato un editto promettendo il cavalierato e la nobiltà a chi avesse piantati 4.000 ulivi, e onorificenze maggiori a chi era già cavaliere. Nella speranza che il porto di Torres fosse riparato, affinché potessero approdarvi legni di maggior portata, erasi spontaneamente stabilita la tassa di 5 soldi per ogni barile d’olio da estrarsi; in seguito fu accresciuta dalla finanza a 5 reali per barile e si scapitò nei lucri.
«I proprietari andarono a rilento essendo cessato lo smercio di olio che facevasi agli inglesi, i quali lo acquistavano a vistoso prezzo; e non essendovi dall’Italia e dalla Francia richieste frequenti si dovette ridurre il prezzo, per cui i proprietari tengono l’olio invenduto nei magazzini per quattro e più anni, con pregiudizio proprio. A ciò si aggiunga la cresciuta gabella di Francia e d’Italia. I proprietari pensano applicarsi ad altre speculazioni, poiché alla tassa si unirono le decime, e le ingenti spese per la lontananza del porto dalla città, e così manca il lucro. Le famiglie vivono nelle strettezze perché gli stranieri non vogliono acquistar olio che a vilissimo prezzo.
«Non bastando più gli olii di Bosa, Alghero, Oristano e Cuglieri al consumo di quelle popolazioni, il peso cade tutto sui soli sassaresi, che possono ritenersi come i creatori di un tal ramo d’industria in Sardegna».
1833 (Ottobre). – Si torna a supplicare il Re per la franchigia sull’olio, il cui prezzo era molto ribassato, tanto che si vendeva persino a scudi tre il barile.
1848. – L’Angius nota che «in anni di abbondanza Sassari con Sorso sogliono vendere (e tante volte lo hanno venduto) circa centomila barili di olio; il quale calcolato a L. 20, dà il prodotto di due milioni di lire».
1851 (Settembre). – Si lamenta la mancanza del raccolto delle olive. Il prezzo dell’olio si fa salire a Ls. 33.60 ogni barile.
1868. – Il Mantegazza scrive in quest’anno: «L’olio è per Sassari una mina di argento: mi si diceva, che nel detto anno più fortunato fra gli altri, si sarebbero ottenuti un 20.000 barili di olio, che è quanto dire una bella cifra rotonda di sette o otto milioni di lire… L’olio di Sassari potrebbe esser fatto meglio: se ne manda a Nizza, dove, raffinato, cresce di valore e piglia un nome che per la squisitezza nativa ben si ha meritato».
1869. – Il Prof. Marzorati scrive che nel territorio di Sassari vi ha un’enorme selva di oliveti, i più belli della Sardegna, che producono in media 150 mila barili d’olio, equivalenti a 4 milioni e mezzo di litri; il quale olio al prezzo di L. 40 il barile, darebbe un introito di circa 6 milioni all’anno.
Raramente va al disotto di 50 mila barili, e nelle annate abbondanti tocca i 200 mila con una rendita di circa 8 milioni. Egli però riprova l’uso di aspettare che le olive cadano per raccoglierle.
Nel 1888, Don Gavino Passino, relatore della Commissione permanente per gli interessi agricoli della Sardegna, dice che i Sassaresi continuano a ripetere che gli oliveti hanno fabbricato i palazzi; ma ormai gli olivi hanno invecchiato, ed il terreno è esausto, poiché le piante hanno sempre tolto dalla terra, ma la mano dell’uomo nulla ha loro più dato, «mentre i vecchi (egli dice) hanno bisogno di cure più speciali e sentite». Ed ha ragione: gli olivi di Sassari sono in massima vecchi di due secoli e mezzo.
Il Prof. Cusmano scriveva nel 1906: «La provincia di Cagliari esportò nel 1903 quintali 103 d’olio di oliva, contro un’importazione di quintali 3.374; mentre la provincia di Sassari, nel 1904, inviava sul continente italiano quintali 11.776 d’olio».
Il Prof. Pellegrini, Direttore della locale scuola Agraria, in una sua conferenza nel 1908 dice che intorno alla città di Sassari vi sono oltre 6.000 ettari di terreno occupati da oliveti, che danno sostentamento a oltre 2.000 proprietari e lavoro a un terzo almeno della popolazione agricola; che siffatti oliveti sono la principale ricchezza di Sassari, e che lo saranno per lungo tempo, specialmente se alla loro coltivazione e all’industria olearia si apporteranno i perfezionamenti che la scienza agraria, la meccanica, la chimica e la organizzazione industriale utilmente suggeriscono.
Barili scarsi
È questa una nota di tutti i tempi. Molti speculatori forestieri di mala fede, che compravano l’olio a grosse partite dai proprietari, solevano trar maggior lucro dall’acquisto, aumentando con male arti la capienza dei loro barili, oppure con altri mezzi egualmente disonesti.
Nel 26 Giugno del 1815, per esempio, il Municipio, avendo saputo che molti barili e mezzi barili non erano di esatta misura, ordinava con un bando che venissero tutti presentati al Comune, verificati e marcati entro 15 giorni.
Nel Settembre del 1847 il Consiglio Comunale discute sulla nuova misura legale per la vendita dell’olio all’ingrosso.
Il 22 Maggio 1849 il Municipio, per togliere i molti abusi del commercio a danno dei proprietari d’olio, si rivolge all’Intendente per estirpare la poca buona fede e la diffidenza nelle compravendite, abilitando l’antica revisione e marchio dei barili, o annullandoli tutti per ridurli, conservando l’antica forma della capacità di 40 litri, per metterli in armonia col vigente sistema decimale.
Continuò così il lamento sulla malafede e sui furti degli incettatori d’olio fin quasi ad oggi, e vi furono anche al riguardo delle adunanze di proprietari e persino un meeting in teatro; ma io credo che non siasi mai riusciti, né si riuscirà ad evitare l’inganno, come non si riuscirà mai a togliere l’usura.
Alla scarsezza della misura dei barili si aggiunse in ogni tempo il furto delle olive in campagna e più volte il Municipio pubblicò dei manifesti in proposito, come per esempio il 9 Dicembre 1847; ma i ladri continuarono e continueranno, sempre che possano, a rubarle, a danno dei poveri o non poveri proprietari.
Frantoi per l’olio
Il metodo, usato dagli antichi per estrarre l’olio dalle olive era, naturalmente, proprio… primitivo. Leggesi che in diversi paesi, anche in tempi non tanto lontani da noi, le olive si schiacciavano coi piedi, e coi piedi si premevano le olive già peste per trarne l’olio. Così usava farsi dai Marocchini, e in alcuni luoghi della Sicilia, ed anche della Sardegna, specialmente nella Diocesi di Ales.
Abbiamo già notato, come la Giunta per gli oliveti nel 1773, asseriva che in Sassari i torchi erano ben fatti e rispondevano perfettamente allo scopo, essendo pari ai migliori del Continente.
In carte dell’Archivio leggesi inoltre che nel 1822, dentro città, il numero dei molini per olio superava gli ottanta.
L’Angius nel 1848 notava che i molini d’olio dentro e fuori città non erano meno di 136. Occupavano per la maggior parte un solo ambiente dov’era la macina, il torchio e la vasca in cui gittavasi l’acquaccia o acqua crasta per raccogliere in seguito le parti oleose. Aggiunge che ogni molino era servito da due uomini: il molinaro e il garzone. Lo stesso Angius parla di nuovi torchi in ferro fuso, introdotti verso quel tempo dal Cav. Michele Delitala; i quali torchi, riconosciuti utilissimi per l’aumento del prodotto, avrebbero fra non molto sostituito quelli vecchi, di cui molti proprietari pensavano già di disfarsi.
Lavatoi per l’olio
«Anticamente la sansa, dopo la seconda pressatura, era da tutti rifiutata come materia esausta ed inutile; e fu il Cav. Michele Delitala che nel 1820 stabilì il primo Lavatoio nella regione di Molafà, con utile dei proprietari, i quali poterono trarre lucro anche dalla sansa». Così l’Angius, ma parmi in errore.
Nell’opera del Manca dell’Arca, scritta nel 1780, è detto: «Si tira l’olio dalla sansa. Un impresario di Oneglia ha fatto fabbricare un lavatoio vicino a Sassari; ma egli lamenta che esso rende poco in rapporto ad altri luoghi; ciò sarà per difetto dei torchi, sebbene a Sassari siano ben condizionati».
Ma anche il Manca dell’Arca non parmi nel vero, poiché come vedremo in seguito, risulta che fu l’avv. Giovanni Berlinguer, il primo a impiantare nel 1771 un lavatoio. Diamo intanto alcune notizie preliminari.
1818 (Novembre). – Il negoziante Gio. Battista Barone, di Diano Marina, presenta al Municipio il progetto di un pubblico lavatoio per estrar l’olio dalle sanse, che doveva stabilirsi nella regione Murighessa.
Il Municipio decise di darglielo per un solo anno, non per dodici come il Barone aveva chiesto, perché le acque della Murighessa potevano soffrirne per il pubblico. Il Barone non accettò questi patti.
1822 (30 Marzo). – Il Municipio ricorre al Governatore contro il sacerdote Angelo Salis che ha impiantato un lavatoio in Logulentu, senza il permesso della città. Il ricorso dice che le acque che ne colavano danneggiavano le piante dei giardini. Il Viceré, ordina di non proibirne il funzionamento, essendo cosa utile. Altro lavatoio eravi anche a Molafà, ma per questo non fu mossa alcuna lagnanza.
1824 (2 Ottobre). – Il Municipio, essendo venuto a cognizione che l’avv. Giacomo Fresco costruiva un molino di sansa in un suo predio nell’Ischia, denominato Marianu, deliberò di proibirlo dietro le lagnanze dei proprietari, i quali osservavano che pregiudicava le acque del fiume d’Ottava e la fonte pubblica di S. Giorgio. L’avv. Fresco continuò però i lavori di costruzione ed il Municipio stabilì di ricorrere alla via giuridica, per coerenza anche alle opposizioni fatte al sacerdote Salis per il molino di Logulentu nel 1822.
1835 (30 Giugno).- Dopo le solite licitazioni fu deliberato a favore del negoziante Agostino Ardisson la concessione del tratto di terreno da lui chiesto in enfiteusi per il canone annuo di scudi 16. Il terreno era situato tra la chiesetta di S. Biagio e il Convento di S. Paolo e aveva estensione di metri 65×50. L’Ardisson chiedeva questo terreno per erigervi due mulini per l’olio d’oliva, un altro per macinazione del grano col cavallo, ed altro infine per l’olio di lino, nonché una fabbrica di sapone.
L’anno seguente (1836) il Villamarina informava il Viceré dei disordini che avvenivano in Sassari contro il lavatoio impiantato da certo Issel o Uxel, alcuni dissero per le immondizie, che corrompevano le acque, altri per istigazione di persona influente a cui il proprietario aveva negato una somma a prestito. Si chiedono informazioni. Era questo il triste preludio dei delitti di sangue che dovevano commettersi in quello stabilimento, il cui epilogo ebbe fine nel 1856, con molti arresti e molte condanne.
Il Cav. Luigi Serra (nel suo libro di agricoltura, stampato nel 1842) dà una lode particolare al genovese Ardisson stabilitosi da molti anni in Sassari, per il suo lavatoio ben combinato, sebbene meno esteso di quello dell’avv. Fresco; il quale fin dall’inizio dava oltre 3.500 barili di olio di sanse: di quelle sanse (egli scrive) che non ha guari si vendevano a 4 soldi per soma, ed ora (1848) si pagano 23 e 24 soldi. Egli aggiunge: Alghero conta due lavatoi, l’uno stabilito nel 1840, e l’altro nel 1841; sono 22 i molini che oggi (1848) frangono olive, mentre quindici anni or sono non se ne conoscevano che soli 10.
1848. – Gli altri lavatoi fondati a Sassari e registrati dall’Angius erano i seguenti: quello di S. Barbara sullo stradone di Sorso, stabilito dall’avv. Fresco e adoperato dai fratelli e cugini Ardisson, i quali avevano già cooperato all’impianto del lavatoio di Molafà; indi quello detto di S. Biagio, artificiale, impiantato dal francese Uxel o Issel; e finalmente quello nella regione di Taniga. Osserva lo stesso Angius che da questi lavatoi potevano ricavarsi in buone annate persino da 25 a 30 mila barili d’olio i quali in altri tempi andavano perduti.
1858. – Nel Febbraio fu inaugurato dal proprietario Don Gavino Passino il bellissimo stabilimento per lavatura di sansa ed altre industrie di cui altrove parleremo.
Nobiltà dell’olio
Abbiamo veduto che nel 1806 il re Vittorio Em. I, concedeva il cavalierato e la nobiltà a chi avesse piantato 4.000 olivi. Io non saprei dire se fosse maggiore il merito del sardo che piantava olivi per diventar nobile, o quello del Sovrano che largiva diplomi di nobiltà, affinché la Sardegna si arricchisse di una nuova industria rimunerativa.
Ciò premesso dirò che trent’anni prima dell’editto di Vittorio Em. eravi in Sassari chi ebbe il Cavalierato per essere un benemerito dell’olio… e forse senza saperlo!
Nel Settembre del 1773 l’avvocato sassarese Giovanni Berlinguer y Calsamiglia, chiese al Re un privilegio di Cavalierato e Nobiltà, esponendo in una supplica di molte pagine tutte le ragioni per cui vi aspirava e lo chiedeva. Sorvolando sulle molte altre benemerenze, meriti di famiglia e parentele illustri che diceva di vantare, io mi fermerò su quella ch’egli riteneva di minor conto, e che invece aveva il maggior valore. Riporto il brano della supplica, che tolgo dal R. Archivio di Stato. Il Berlinguer si pregiava: «…di aver introdotto da due anni (1771) in Sassari una fabbrica unica nel Regno di Sardegna, volgarmente detta lavatoio, propria ad estrarre dalle olive tutto l’olio ivi esistente, e simile a quelle che sono in Nizza, in Oneglia e in tutta la Riviera di Ponente di Genova; a qual fine ha il medesimo fatto venire un genovese pratico in quel mestiere; per quanto che, senza detta fabbrica e l’anzidetto genovese, si perdeva una più che notabile quantità di olio, come così lo sperimentava il supplicante per lo passato, e come altresì lo sperimentano al presente tutti quelli che secondo l’uso del paese non praticano simili diligenze; e ci ha pur fatto interessare il proprio figliuolo per la metà; onde l’Esponente, affinché detta fabbrica fosse stata finita nel tempo pattuito nel contratto, ha fatto segurtà per due molini d’acqua, a detta fabbrica necessari, stati presi in enfiteusi perpetua; e qualora il supplicante abbia la sorte di ottenere dalla benignità di V. R. M. la grazia, si obbliga di fare nel termine di anni quattro una Cascina in Sassari, sotto le cauzioni che V. M. stimerà dover farsi dal supplicante…».
E il Berlinguer, dopo qualche tempo fu fatto cavaliere, e meritava sul serio siffatta onorificenza. Tre anni dopo (nel Febbraio del 1776) gli fu ucciso il figlio Girolamo per mano di certo Antonio Capponi; omicidio barbaro e atroce – dice la lettera del Ministro che ne parla.
Vediamo dunque che l’Angius non fu esatto nell’attribuire a Don Michele Delitala il primo lavatoio impiantato nel 1820; né fu esatto il Manca dell’Arca nel darne il merito a un impresario di Oneglia verso il 1780.
I lavatoi in seguito progredirono e si perfezionarono, come i molini da olio, ed oggi ne abbiamo moltissimi e di perfetto funzionamento.
Gelsi e bachi
Il Fara scrive nel 1580 che nell’agro di Sassari erano molti alberi di more e che da pochi anni si coltivavano i bachi da seta. L’Angius ci dice che verso il 1560, per lo zelo dei sassaresi, si cominciò a praticare la coltura dei gelsi, e si educarono i bachi da seta.
In quasi tutti i Parlamenti sardi, insieme a quella degli olivi si incoraggiava sempre la coltivazione dei gelsi, sperando di promuovere nell’Isola l’industria della seta, salita in grande rinomanza in altre regioni d’Italia e del mondo. Nel Parlamento del 1602 si proponeva, che in tutti i terreni non idonei alla piantagione del frumento, dell’orzo e delle fave si piantassero almeno due dozzine di alberi di more, effettuando la piantagione entro tre anni, contro pena di 5 lire… e il Re approvava. Così stesso, nel Parlamento del 1625 si diceva che: «potendo prosperare in Sardegna i gelsi provvedesse il Viceré perché fra i 50 individui che si chiamerebbero per gli innesti degli olivastri, ve ne fossero alcuni pratici della educazione dei bachi da seta, ed i terreni da costoro indicati come adatti ai gelsi, si ripartissero fra le persone che volessero attendere all’industria del setificio, da cui verrebbe gran ricchezza al Regno».
Nel Parlamento del 1656 il Sindaco di Sassari propose di attirare e lusingare i forestieri per convincerli a domiciliarsi nella detta città, decimata dalla peste del 1650, osservando che potrebbero trarre profitto dall’industria dell’olio, dello zucchero e delle sete.
Il Manno scrive che sulla fine del Governo spagnuolo esistevano ancora in Sardegna alcuni telai per far le stoffe di seta.
Sotto il Governo di Savoia fu il Ministro Bogino che suggerì di piantare molti gelsi, ma la coltivazione rimase sempre limitata.
Nell’Agosto del 1761 il Ministro scriveva al Viceré: «S. M. ha sentito con piacere che riesca anche nel Regno la coltura dei mori-gelsi per allevamento dei vermi da seta, e dal fazzoletto che V. E. mi ha trasmesso, rilevo fin dove giunge l’industria veramente mirabile di codesti regnicoli. Confesso a V.E. che io rimasi sopraffatto. Ma quanto all’invio di donne pratiche nella filatura delle sete, Ella ben vede che dovrebbero essere accompagnate dai loro mariti, i quali non si troverebbero da impiegare ugualmente».
Nel 1779 Antonio Porqueddu scrisse un poemetto in dialetto cagliaritano col titolo: Il Tesoro della Sardegna nei boschi e gelsi. Egli dice che molte signore si occuparono della coltivazione dei bachi e nomina fra le altre: Donna Francesca Sulis che in Cagliari coltivò i bachi per divertimento durante dieci anni. Secondo il Porqueddu le migliori coltivazioni si facevano in Galtelly, Orgosolo, Dorgali e Nuoro, che davano un’ottima qualità di seta.
Nel 1788 l’agricoltura in Sardegna era in florido stato e progrediva, scrive il Cossu, ma della produzione della seta non esisteva che un’ombra, o un piccolo principio.
Con R. Biglietto dell’Ottobre 1787, S. M. desiderando che la produzione dei bachi s’introducesse nell’Isola, incaricava la Giunta Generale di promuoverla. E anche le superiori autorità ecclesiastiche ordinarono ai parroci di fare propaganda, rivolgendo loro queste parole in lettera Pastorale del 25 Marzo 1788: «… Cento alberi giovani di gelsi danno meno di due cantara di foglie. Qualora il padrone degli alberi volesse allevare i bigatti, potrebbe mantenerli, poiché lavorano circa 90 libbre di bozzoli; i quali venduti a un quarto di scudo ogni libbra, darebbero 22 scudi e 5 soldi di prodotto, cioè tre scudi e due reali per albero. Massaie, principalesse, padrone di casa, insieme ai loro mariti, col lavorar la terra e curando il bestiame, manterrebbero infine il commercio del Regno coi forestieri, portando a casa denaro e pane».
I privilegi da godersi dagli allevatori sono contenuti nei Pregoni Viceregi del 1701 e 1771. Il Duca di S. Pietro aveva messo a disposizione dei vassalli che volevano dedicarsi a siffatta piantagione molta quantità di ovoli di gelsi; e così il Barone di Sorso, il Barone di Teulada, il Marchese Boyl di Putifigari, la moglie del Reggente Don Francesco Vico di Conquistas, ed altri (Cossu).
Colla circolare del 28 Gennaio 1788 si accordavano ai coltivatori le stesse prerogative del Pregone del 1771: «Chi tagliava o sradicava un gelso, doveva ripiantarne dieci a proprie spese; chi appiccava il fuoco, senza un permesso, a cinque miglia di distanza da un gelseto, era punito con 10 anni di galera».
Il Gemelli, nel 1776, dedica due Capi e quattro articoli del suo libro già citato ai gelsi e ai filugelli; trova lodevoli in Sassari le piantagioni di Don Giacomo Manca e quella del Marchese della Planargia, che andò però fallita. Ci dice pure che il signor Bret piantò dei gelsi nei dintorni della città, facendone venire un centinaio nel 1768, e una sessantina nel 1771.
Il Cav. Serra nel 1842 scrive, che per il premio proposto dalla R. Scuola Agraria di Cagliari, per incoraggiare e promuovere la coltivazione dei gelsi, si erano inscritti molti proprietari, e già se ne sentivano i vantaggi; e ne facevano fede le sterminate piantagioni fatte dalle famiglie d’Arcais, Pollini, Ciarella, Serra Serra, ed altre non poche in Sassari, Oristano, Senorbì e dintorni di Cagliari.
In Sassari veramente non si coltivò mai in larga scala il gelso, e non furono molte le signore che per divertimento coltivarono la produzione dei bozzoli.