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Leggi e giustizia

Armi

Non saprei per vero precisare qual’era ai tempi della Repubblica la divisa dei soldati. Certo è che i capitani e i soldati vestivano lo stesso costume della Repubblica di Genova: coll’elmo e la maglia d’acciaio. Le armi allora usate, di cui si fa cenno all’art. II, erano: il falcastro (strumento di ferro fatto quasi a foggia di falce); – il mannarese (strumento tagliente a guisa di mannaia); – il verruto (dardo); – la verga e la mazza ferrata. D’armaioli non è cenno negli Statuti.

Banditi

Se un individuo, colpito da una condanna, riusciva a mettersi in salvo fuori di Sassari, egli doveva subire la pena del suo misfatto in qualunque tempo venisse preso dalla forza armata, oppure in qualunque tempo rientrasse in città volontariamente.

L’art. 127 proibiva severamente di dare asilo o consigli ad un bandito. L’art. 87 stabiliva, che per qualunque eccesso commesso, nessuno poteva toccare i beni di un bandito. Essi diventavano proprietà del Comune.

Nell’art. 2 del Libro II è detto, che qualunque persona poteva, senza subire condanna, uccidere o ferire un colpevole, bandito per omicidio, per membru secatu, o per furto.

Barancelli?

Nell’art. 79 è detto: «che tutti i danni che si faranno nelle case di campagna (vigne, orti, molini, ecc.) e nelle masserizie in esse contenute, per mano d’uomo o del fuoco, dovranno essere indennizzati dal Comune di Sassari, entro un mese dal giorno della denunzia, dietro giuramento del proprietario sul valore del danno arrecatogli; eccettuati ben s’intende i valori degli oggetti in oro ed argento; salvo poi a punire il malfattore se capitasse nelle mani della giustizia».

Da questa legge – nota il Tola – potrebbe ripetersi l’origine delle Baracellerie, o Compagnie d’assicurazione per i predi di campagna.

Bestemmie

Chi bestemmiava Dio, Santa Maria, o alcun Santo o Santa, pagava per ogni volta 20 soldi; ed era tenuto in prigione fino a pagare. Ciò però non s’intendeva per i giovani al di sotto dei 14 anni.

Era un bel trovato per impedire le imprecazioni. Dio sa però di quali altri bestemmie terrene si servivano i nostri padri per sfogare la loro collera!

Carceri

Le Carceri esistevano anticamente nello stesso sito dove sono quelle di San Leonardo, oggi abbandonate, nella Carra Piccola.

L’art. 159 del Codice dice: «che il Guardiano delle Carceri non può pretendere da ogni prigioniero, per salario delle prigioni, per olio od altra spesa, oltre soldi 6 all’atto dello scarceramento».

Il Codice parla pure dei Soprastanti alle Carceri – e pare che questi non fossero altrettanti casti Giuseppe colle belle prigioniere. Vi ha un articolo contro questi buoni soggetti che tentano violare le donne carcerate; e li punisce in un modo che fa cambiare la loro voce di tenore o di baritono in quella di contralto.

Cospirazione

Cosa curiosa e ben degna di nota! – Mentre chi guardava una donna nel bagno era punito col taglio della testa, e a chi era ladro si tagliava la mano o si cavava un occhio; mentre infine vediamo le più rigorose pene per falli leggieri, la cospirazione contro il Governo non era punita che con pene pecuniarie. Il Capo della congiura si puniva con sole 100 lire di multa; e tutti gli altri complici, pagando lire 50 per ciascuno, potevano ritornare tranquillamente a casa senza pericolo d’essere molestati.

Una cospirazione nel 1821 o nel 1833, costava assai di più!

E questa mitezza di pena aveva anch’essa la sua buona ragione. Se si congiurava, voleva dire che non si era contenti del Governo; – e il Governo non era così sfacciato da credersi giusto, senza macchia ed infallibile!

Denunziatori

Ben si comprende che in una piccola Repubblica, co-me quella di Sassari, i cittadini dovevano essere solidali fra loro; quindi, tutti soldati, tutti impiegati, tutti carabinieri, e tutti poliziotti. Ognuno aveva il dritto ed il dovere di denunziare i delinquenti, di accusare al Podestà chi non era galantuomo, di arrestare chi si era reso colpevole di un delitto, e di uccidere o rompere un membro ad un bandito in campagna.

Pure non si può negare, che questa continua inquisizione reciproca doveva generare un po’ di diffidenza fra galantuomini, e raffreddare i rapporti d’amicizia e d’interesse. Ma passi anche ciò in grazia dei sagrifizî che deve fare un onesto patriotta per conseguire il bene e la prosperità del proprio paese. Ciò però che dispiace, è il prezzo assegnato a questa specie di delazione, cioè a dire, la metà delle multe che toccavano all’accusatore; e più ancora le misteriose parole che accompagnano sempre la formula dell’articolo: «Di questo bando la metà sia del Comune, e l’altra metà dell’accusatore, e sia tenuto segreto. E ciascuno possa accusare, e sia creduto il suo giuramento».

Viene subito in mente un birbaccione, il quale, quando sapeva di aver troppo asciutto il borsellino, andava subito per le vigne a spiare chi saltava un muro, chi portava via un palone, ecc., ecc., e correva difilato al Palazzo di città per buscarsi la giornata, ben sicuro di scansare l’odio dell’accusato, in grazia del manto di segretezza che gli prestava il Comune!

Ferimenti

Se alcuno colpiva un suo simile con ferro, pietra, frusta od altro, le pene erano le seguenti: – Se dalla ferita usciva sangue, oppure se essa lasciava traccie sul viso, si pagavano lire 25 di multa; e ciò, perché il bastonato non poteva nascondere la sua vergogna. Se sangue non vi era, le pene erano tenuissime. Dalla punizione erano esenti i garzoni che non toccassero i 14 anni – ai quali non si faceva processo; purché, però, non seguisse la morte del ferito, nel qual caso doveva essere impiccato come gli adulti; a meno che i parenti più prossimi dell’ucciso non volessero perdonarlo; ed allora si mandava libero. Per chi feriva con sasso, si badava solo se il colpi-to cadeva o no; se cadeva, la pena era di lire 4 – se stava in piedi, di 40 soldi.

Le pene crudelissime erano riservate a chi con arma tagliava un membro a qualche persona, oppure per chi feriva in modo che un membro dovesse perdersi o amputarsi; in questi casi, il feritore era condannato a perdere lo stesso membro e a pagare la multa di 10 lire. E per membri s’intendevano le mani, i piedi, le dita, gli occhi, le orecchia, le labbra e il naso.

Figli disubbidienti

Il rispetto e l’ubbidienza dei figli per i genitori erano gelosamente voluti dai Codici della Repubblica. Vi ha un articolo che priva dell’eredità paterna e materna tutti quei figli o figlie che disubbidiscono ai genitori, oppure che si sono resi ingrati con essi, facendo cosa contraria alla loro volontà. La legge però non impediva che i genitori potessero testare in favore di essi figli ingrati.

Forestieri

L’art. 14 del Libro II dice: «Se alcun sassarese o del distretto, farà un malefizio od un debito con alcun forestiero, sia trattato nella stessa guisa con cui i Signori delle terre straniere trattano cogli uomini della loro terra che avranno commesso le medesime mancanze contro i Sassaresi o distrettuali. E se ad alcuno di Sassari o del distretto non sarà fatta giustizia in terra forestiera, si possa pagarsene come meglio si creda; in modo tale, che del danno fatto apparisca legittima la pena; e se tale non sembrerà a chi il danno o l’ingiuria avesse ricevuto, la Podesteria e gli Anziani consultino 12 buoni uomini, e secondo il loro consiglio venga fatto. E tutto quanto il Podestà, Anziani e Savi avranno stabilito, valga come se in questi Statuti fosse contenuto; ben inteso non contravvenendo ad alcun capitolo dello stesso Codice Sassarese».

«Ciascuno, nella cui casa morisse un forestiero – dice l’art. III – ne denunzi la morte al Podestà, prima del seppellimento. Se egli avesse fatto testamento si osservi questo scrupolosamente; se non lo avesse fatto, allora si faccia l’atto dei beni da lui posseduti, con carta pubblica, e si affidino i di lui beni ad un onesto e leale cittadino, fino alla comparsa dei parenti. E chi non denunzia il forestiero che muore, paghi lire 10, delle quali si abbia l’accusatore soldi 15».

Giuoco

L’art. 47 proibiva di giuocare a dadi, a interesse; salvo nelle feste ordinate. Non si poteva tener giuoco in casa, nel porticale o nella propria corte; né si poteva ottenere ragione per danaro prestato al giuoco, nonché per i mobili guadagnati sulla parola.

Come vedesi, il servizio del giuoco allora, come oggi, era in tutto il suo pieno sviluppo.

I tre nêi del Codice

Fra il tanto senno, giustizia e umanità che guidarono i nostri antichi padri alla compilazione delle leggi contenute nel Codice della Repubblica, il qual Codice, secondo Manno, è un monumento della sapienza dei Sassaresi; – secondo Boullier, una costituzione en avant de son siecle; – secondo Valery, un libro che onora qualunque Stato; – e secondo Sclopis, un’illustrazione del Governo Sassarese; – non mancano qua e là traccie di quelle barbarie che rendono così famoso il Medio Evo.

Tre cose principali dispiacciono nella raccolta di queste saggie leggi: – la schiavitù, che divideva gli uomini in due classi distinte, liberi e schiavi; – la tortura, che strappava dal labbro dei poveri infelici una colpa che ben sovente non avevano commessa; – e gli accusatori, un basso spionaggio inalzato quasi a virtù, o meglio mascherato sotto il manto del più scrupoloso dovere. Amore di verità mi costringe a mettere in rilievo questi tre nei, ad ognuno dei quali voglio dedicare un apposito capitolo.

I ladri

Le pene più crudeli sanzionate dagli Statuti sono per i ladri. Dei ladri, al tempo della Repubblica, si aveva orrore.

L’art. 25 prescriveva, che il ladro, il mentitore, e chi subiva una condanna, anche leggera, si dovesse segnare in un registro dal Notaio, notando la colpa da lui commessa; e ciò perché non si accettasse più per testimonio, e non potesse più avere ufficio e benefizio dal Comune.

Eccovi le pene stabilite dal Codice per i furti:

«Chi ruba fino a 10 soldi sia frustato per Sassari; – chi ruba dai 10 ai 20 soldi gli sia tagliata l’orecchia destra; – dai 20 soldi fino a 3 lire, oltre il taglio dell’orecchia destra, s’abbia sulla tempia il bollo del Comune; – da lire 3 fino a 10, abbia il bollo, il taglio dell’orecchia, e fuori un occhio – dalle 10 alle 20 fuori i due occhi; – da lire 20 in sù, impiccato per la gola. E tutto questo non s’intenda per chi ruba le frutta e per quelli che non hanno oltrepassato l’età di anni 13».

Non meno rigorose sono le pene inflitte agli scherani e ladri di campagna.

Faccio qui notare, che in tutto il Codice, tanto per le pene quanto per i pubblici servizi, l’età di 14 anni è sempre fuori legge, meno in questo capitolo dei furti, in cui l’età è diminuita di un anno e ridotta a soli 13 anni. Il rispetto all’altrui proprietà preoccupava molto la mente dei nostri antichi Legislatori.

Leggi sul pudore

Abbiamo già parlato dello Stabilimento dei Bagni che esisteva attiguo all’attuale Monastero di Sant’Elisabetta. L’art. 160 imponeva ai maschi di bagnarsi colà il giovedì, il venerdì, il sabato e la domenica, ed alle donne di andarvi il lunedì, il martedì e il mercoledì. Le pene poi da applicarsi a chi contravveniva a questi ordini erano semplicissime: – l’uomo veniva decapitato, e la donna arsa viva. Ben s’intenda – aggiunge il Codice – di non comprendersi in questa pena i garzoni al di sotto dei 14 anni.

Son certo che a nessun uomo sarà venuto in mente di vedere una donna bagnarsi! – e nessuna donna (forse per la prima volta) avrà sentito lo stimolo della curiosità! – Questo estremo rigore di pena, ben prova quanto in quei tempi fosse stimata la pudicizia e la pubblica decenza.

Nell’art. 31 è detto: «Non si può far violenza ad alcuna donna; e se a forza si violentasse, sia l’uomo condannato a pagare dalle 50 alle 100 lire, secondo la condizione della donna. Della qual multa, la metà sia del Comune, e l’altra metà della femina isforthata. E se l’uomo non paga entro dieci giorni, gli sia tagliata la testa; a meno che la donna violentata non si adatti a sposarlo; in questo caso egli sia posto in libertà».

Se la donna violentata era un’ancella (serva) tanto vergine che maritata, l’uomo pagava sole lire 10, ed era tenuto in carcere fino al pagamento della detta somma. Se si violentava però una donna maritata, erano escluse le pene pecuniarie; si tagliava la testa al violentatore, e tutto era finito.

Se la violenza, infine, era stata fatta ad una donna che non fosse vergine né maritata, la pena era dalle 10 alle 25 lire, secondo la sua condizione, se ancella si pagavano soli 100 soldi.

In tutto il Codice è questa la prima volta che si stabiliscono gradazioni di pena a seconda la condizione delle persone: schiave o libere. In mezzo a tanto senno e a tanta morale spuntava tratto tratto una di quelle crudeltà, o controsensi, che sono il distintivo dei Codici del Medio Evo.

L’art. 60 dice: «Se un uomo, di qualunque grado sia, travierà o avrà commercio con una serva d’altri, ordiniamo che de presenti ili siat segadu su membru suo cum sos … per modu qui lu perdat; e la fantesca che si è lasciata ingannare, si abbia nella natica un marchio fatto con ferro rovente, senza alcuna misericordia, affinché sia danno ad essa ed esempio ad altre; a meno che essa non pagasse lire 200 entro 15 giorni. Questa pena però non s’intenda per quella serva che col consenso del padrone, si partirà dalla casa ove stava, e dove non vuol più rimanere. Andata via con licenza dei padroni, essa è libera di fare ciò che vuole della sua persona».

Per fortuna la legge aveva facile uscita; ché altrimenti la faccenda poteva diventare un po’ seria. In vista però di certe misure di precauzione, i giovani d’allora, prima di far all’amore colle serve, ci pensavano sopra due volte!

L’art. 50 si occupava brevemente dei bigami e delle bigame, malefizio orribile e indegno, come è detto nel Codice. – L’uomo che si trovava possessore di due mogli, veniva subito impiccato; e la donna che teneva due mariti vivi, era bruciata senza alcuna pietà.

L’art. 56 infliggeva 10 lire di multa all’uomo che con mal animo diceva cornuto ad un ammogliato. Se invece era una donna che dava del cornuto ad un uomo che avesse moglie, non pagava che la metà: 5 lire.

Vuol dire dunque, che dicendo con buon animo quella parola, si poteva sfuggire alla multa!

La parola cornuto fermò in ogni tempo l’attenzione del Legislatore. Nella Carta de logu, pubblicata da Eleonora d’Arborea ottant’anni dopo, s’infliggeva la multa di lire 15 a chi diceva cornuto; e se lo provava, la multa era di lire 25. – Le Prammatiche pubblicate sotto la Spagna nel 1633, condannavano invece chi diceva cornuto a disdirsi davanti al Tribunale, ed all’esilio dal Regno per tre anni. – Era un po’ troppo.

Libertà dei Sassaresi

Sassari era edificata in un territorio incantevole per mitezza di clima, abbondanza d’acque e ricchezza di vegetazione. Abbiamo infatti veduto nella Convenzione, che i nostri padri vollero per patto speciale la formale promessa dai Genovesi, di non cambiare mai di luogo. I nostri antichi temevano che i Genovesi, per interessi di commercio e avidità di lucri, fossero indotti poco per volta a fabbricare in riva al mare per la comodità dei traffichi, essendo Torres più vicina ai porti della Signoria. I nuovi Turritani, che avevano già abbandonata la loro antica sede, non volevano certo ritornarvi!

Una cosa poi curiosissima è questa: che il Comune di Sassari considerava in quel tempo come Provincie quasi straniere tutti gli altri paesi della Sardegna, perché soggetti a diverse signorie. I Sassaresi tenevano molto alla propria libertà; erano troppo fieri d’essere stati i soli che si erano sottratti al dominio straniero. E per dir vero quello dei Sassaresi era un egoismo tutt’altro che lodevole! Secondo l’articolo 36 degli Statuti, nessuna persona di Romagna, maschio e femmina, poteva essere borghese di Sassari per niuna possessione, salvo per matrimonio fatto con una o un Sassarese; solo in questo caso (dice l’articolo) goda la libertà che hanno i Sassaresi in terra e in acqua, e si stabilisca a Sassari, dopo aver fatta pubblica scrittura. – E se alcuno di Sassari si domicilia in Romagna o in Fluminargia, sia trattato come uno di loro, cioè fuori Sassari, (depus Sassari). – E qualunque persona forestiera voglia godere la libertà dei Sassaresi, e star voglia in Sassari, venga per tutto il mese di Maggio e si faccia inscrivere nel Libro dei Sindaci per mezzo del Notaio; e chi non fa ciò entro quel mese, non possa entrare in città per tutto l’anno, a meno che non paghi tutto il prezzo di un anno del pedaggio o passo. Tutte le altre persone che verranno ad abitare Sassari da qualunque parte, cioè, tanto da Sardegna (?!) quanto da fuori, si potranno fare borghesi di Sassari ed avere e godere della libertà di cittadini sassaresi; e dal giorno che si faranno inscrivere, fino a tre anni, non siano tenuti a prestare servitù di sorta al Comune, reale o personale, salvo in cavallicata generale o nella guardia delle mura.

Da quest’articolo, (osserva giustamente il Tola) risultano due cose: 1°. che i Sassaresi erano alteri di questa libertà che forse godevano da mezzo secolo; e che per mezzo di questa libertà, invidiata da tutti, hanno attirato dai dintorni gli abitanti dei paesi, i quali hanno ingrandita la città; 2°. che il sardo dei villaggi, come oggi i Sassaresi chiamano i paesani, rimonta precisamente a questo fatto.

A provare il buon conto in cui si tenevano i cittadini di Sassari, basta la citazione dell’art. 85, nel quale è detto, che nessun Sassarese si poteva cacciare od esiliare da Sassari per qualsiasi eccesso, e in nessun modo. – Si aveva pure dei riguardi per chi era domiciliato a Sassari, perocché è detto all’articolo 132: «Ordiniamo, che qualunque forestiero, sardo o terramannesu (continentale), non possa essere privato de’ suoi beni». – Vero è, che talvolta la legge era partigiana, come lo dinota l’articolo 35 formulato nel modo seguente: «Ognuno può patrocinare in giudizio, con mandato, le ragioni altrui, salvo per gli uomini di Pisa, d’Arborea, di Gallura e di Cagliari, dei quali nessun Sassarese può essere in nessun caso patrocinatore». – Quest’articolo forse fu suggerito dai Genovesi; ad ogni modo risulta che i nostri odi municipali sono di antica data, e li dobbiamo alla dominazione o ingerenza degli stranieri! – L’odio però dichiarato era specialmente per i Pisani; e tacendo della Convenzione, ben lo apprendiamo dagli articoli 14 e 84 degli Statuti. Col primo si proibisce a qualunque Pisano, sotto pena di lire 50, di poter abitare in Sassari, maximamente de cussos qui furun abitatores over burghesis de Sassari (specialmente di quelli che furono già abitatori o borghesi di Sassari); col secondo si dà facoltà ai Sassaresi di non restituire i prestiti fatti al Comune al tempo dei Pisani. Sono due articoli barbari dettati dall’odio più feroce!

Mariti dissoluti

E’ detto nei Codici, che se una donna maritata con dote avesse un marito prodigo che spendesse malamente i propri beni nelle taverne, nel giuoco o in altri brutti vizi, e questo marito venisse in povertà, un Messo del Comune, a richiesta della moglie, poteva tradurre il marito dinanzi al Podestà ed al Consiglio. E se per sua confessione o per altra prova, risultasse la sua prodigalità ed i suoi vizi, allora si assegnavano i suoi beni alla moglie fino al capitale della dote, e si affidavano ad una persona onesta per garanzia della donna.

Ed ecco come il nostro Comune pensava anche alle mogli!

Mitezza delle pene

Dopo le rigorose pene da noi esposte in parecchi articoli, qualcuno si meraviglierà degli elogi fatti da valenti storici e letterati a proposito della tanto decantata mitezza delle pene contenute nei Codici della Repubblica Sassarese. E per vero, il cavar gli occhi e l’arrostire i vivi, sono pene di una mitezza feroce! Per persuadersi però del mite rigore delle leggi del Comune di Sassari, bisogna tener conto dei tempi in cui si viveva e delle crudeltà contenute nei Codici degli altri Stati d’Europa. Le pene crudeli inflitte nel nostro Codice sono solamente per gli atroci delitti, oppure per quei falli leggeri che non si potevano commettere che per una imperdonabile leggerezza, come, per esempio, la decapitazione od il rogo per un uomo od una donna che sbagliavano il giorno assegnato al loro bagno. Si badi ancora, che nella maggior parte dei casi, l’atrocità delle pene è applicata solo quando si è impossibilitati a pagare dalle 20 alle 50 lire di multa; ed è presumibile che la pietà e carità dei parenti, degli amici o dei cittadini, sarà venuta molte volte in soccorso per salvare un occhio od un orecchio al proprio simile!

Nè crediate che secoli dopo, quando i tempi si erano civilizzati, le pene fossero meno crudeli. Tutt’altro! – esse invece furono più barbare; e per darne un’idea ai lettori, accennerò brevemente ad alcune pene contenute nella famosa Carta de Logu, promulgata per cura dell’umanissima Eleonora d’Arborea: e delle Prammatiche, pubblicate sotto il regno del cristianissimo Filippo IV di Spagna.

Il capitolo 76 della Carta de Logu dice, che al testimonio falso, non pagando entro quindici giorni 50 lire di maquicia (multa), gli si doveva infilare la lingua con un grosso amo, e in tal modo trascinarlo per tutta la città, sempre a colpi di sferza, fino al luogo del supplizio, dove gli si tagliava la lingua. Le Prammatiche invece modificavano il detto articolo, riducendo la pena a 100 frustate e a cinque anni di galera.

La Carta de Logu faceva cavar gli occhi al ladro di cose sacre; e agli altri ladri concedeva la forca (siat impicadu!).

Le Prammatiche, per il ladro di un cavallo, di un bue o di un giumento, hanno le pene seguenti: – Per il primo furto, il taglio dell’orecchia e a servire 5 anni in galera; per il secondo furto, galera in vita; per il terzo, la forca (sea ahorcado!) – I ladroni in genere, frustati e marcati (açotado y marcado).

La Carta de Logu dice: «Chi violenta una donna maritata paghi lire 500, e per una vergine lire 200; e se non paga in 15 giorni gli sia tagliato un piede; – chi entra in casa di una maritata per violentarla, paghi lire 100, e se non paga, gli si tagli l’orecchia. La donna trovata con un uomo sia frustata».

Le Prammatiche, in questo caso, cambiano il taglio del piede, in 10 anni di galera.

Per una parola criminosa o per malia, la Carta de Logu ordinava il rogo; le donne avvelenatrici bruciate vive; per le parole ingiuriose il taglio della lingua; chi feriva al viso, doveva soffrire uguale deturpamento o perdita del membro somigliante; gli incendiari, legati a un palo e bruciati; e chi faceva le fiche, pagava di multa lire 5; e così di seguito colla stessa clemenza e umanità!

Le Prammatiche poi, che pretendono modificare le atrocità della Carta de Logu, hanno esse pure pene dolcissime: – chi diceva parole ingiuriose, burlando o davvero, 100 ducati di multa e 2 anni di carcere; se s’insultava un Giudice, la multa di 25 lire, e non pagando, gli si tagliava la lingua o il pugno; chi andava attorno colla faccia coperta (cara tapada) era punito colla multa di 50 ducati e altrettanti giorni di carcere; chi snudava spada o pugnale andava per tre anni in galera, e se era persona d’onore, pagava 50 ducati; e così di seguito, sempre coll’umana intenzione di correggere la Carta de Logu.

Insomma, Eleonora d’Arborea, nelle pene che infliggeva, aveva una predilezione per il taglio del piede e dell’orecchia, le Prammatiche invece tenevano per il taglio della lingua e del pugno, e per la frusta!

Non vi par dunque che, tenuto conto dei tempi, le pene del Codice Sassarese siano zuccherini in confronto a quelle dei Governi posteriori, i quali si arrogarono il vanto di essere civili? – Di più nel nostro Codice non si parla affatto di malie e stregonerie – e ciò significa che i nostri padri legislatori erano seri, e non credevano alla superstizione ed alle fattucchiere!

I monelli

I monelli sono sempre monelli, e quelli del 1300 non erano migliori dei nostri. L’art. 18 proibisce severamente di battere alle porte dei pacifici cittadini, di fare sgorbi nei muri e di gettar pietre sui tetti o dentro le case, tanto di giorno quanto di notte. Cose tutte, che pare fossero molto comuni.

Omicidii

Parlando ora della pena capitale inflitta dai Codici, mi piace far rilevare che essa non si faceva mai precedere da quei barbari ed inumani strazi che ne prolungavano l’agonia, come con orrore vedremo praticarsi molto più tardi sotto il Governo degli Spagnuoli, e con pari ferocia sotto i Re di Savoia. I dotti che parlarono degli Statuti Sassaresi non passarono sotto silenzio questo fatto. – Sclopis, fra gli altri, fa risaltare la mite e ragionata qualità delle pene della Repubblica sassarese; e il Boullier scrisse: «La peine de morte n’était prononcée que dans des cas tres-rares, et n’était point aggravée par de supplices».

Chi uccideva o feriva mortalmente un uomo, era condannato irremissibilmente alla pena di morte; salvo però in alcuni casi, di cui parleremo all’articolo Schiavitù.

Porto d’armi

L’art. II infliggeva la multa di lire 2 a colui che con animo irato sguainava la spada, o inveiva contro un altro con un’arma qualunque; ben inteso, senza che ferisse.

Chi in una rissa toglieva il coltello da tasca, pagava lire 2. Era pure vietato di accorrere con arma, così di giorno come di notte, senza il permesso del Podestà, o per rumore di rissa, o per suono di campana a stormo, o per bando, o per trombetta, o per fuoco, o per nemici della terra. E chi accorreva, pagava L. 20 e perdeva l’arma.

Si capisce il rigore, ma non si capisce come in quei tempi si lasciasse abbruciare una casa o farvi entrare il nemico per salvare la disciplina. A meno che, tanto il fuoco quanto i nemici, non si sottomettessero allora a discrezione degli ordini del Podestà!

Io penso che queste disposizioni erano state date per volere della Repubblica di Genova, collo scopo di evitare o frenare le sommosse popolari o le cospirazioni.

L’art. 14 prescriveva, che nessun sardo o terramangesu, di giorno o di notte, potesse portare con sé arma offensiva o diffensiva; salvo un coltello che fosse di palmi due, o minore. Chi poi usciva dalla città, a piedi o a cavallo, poteva liberamente portar seco tutte le armi che voleva.

Un coltello di due palmi? – mi pare un po’ troppo lungo; a meno che il cuore a quei tempi non sia stato a tre palmi di profondità!

L’art. 15. sotto pena di un soldo, proibiva a tutti quelli che oltrepassavano i 14 anni, di poter giuocare colle armi; come, per esempio, gettarsi l’un l’altro verrutes (dardi), verghe od altro. Di questo bando dovevano rispondere i padri per i figli, i maestri per i discepoli. La stessa pena si applicava per coloro che giuocavano colle fionde, o colle turritulas (trottole).

Pubblicità dei giudizi

L’art. 18 parla in disteso dei Testimoni e della pubblicità dei loro esami; e il Tola scrive nelle sue note al Codice, che in esso articolo è sanzionata la quasi pubblicità dei giudizi, della quale (benché più completa) mena tanto vanto l’età moderna.

A proposito dei testimoni diremo, che erano puniti con rigore, ed in modo inumano, se deponevano il falso. L’art. 34 prescriveva si tagliasse loro la lingua, né fossero più ricevuti per fare testimonianza. D’altra parte, pare a me, che di quest’ultima deliberazione il Codice avrebbe potuto fare a meno, perché da un muto ben poco avrebbero potuto ricavare!

Schiavitù

L’ho detto: – la società era allora divisa in liberi e servi (liveros, et servos o anchillas). Servo o serva allora voleva dire schiavo. Di questa schiavitù a noi oggidì non è pervenuto che il nome – un brutto nome che suona insulto, e che la civiltà moderna non è ancora riuscita a togliere dall’uso e dal vocabolario. Invece di dire il mio servo, e la mia serva, non sarebbe forse più nobile per la natura umana dire il mio domestico o la mia domestica? – o almeno non si potrebbe farne un servitore devotissimo?

Tornando a bomba, dunque dirò, che sulla coperta del nostro famoso Codice, quantunque informato a clemenza e ad umanità, non si possono scrivere le parole: la legge è uguale per tutti. La legge della Repubblica Sassarese, che punisce con pene severe anche lo stesso Podestà per semplici falli di negligenza, e che in molti articoli non ha riguardo, né rispetto agli stessi chierici (è tutto dire!), ha invece due pesi e due misure quando trattasi di signori o di servi. Lo abbiamo già osservato in piccole pene – ed ora lo vedremo nel criminale.

Parlando dell’omicidio, all’art. 1, è detto: «Chi uccide o ferisce alcuno mortalmente, sia condannato alla morte. Però, se per avventura alcun uomo libero avesse ad uccidere un servo od una serva d’altri, non potrà aver luogo la condanna capitale, ma basterà che al feritore si facciano pagare lire 50 per quell’eccesso (sic), e lire 25 per satisfachimentu (soddisfazione) del servo o della serva; e ciò entro il termine di tre mesi dall’omicidio, nel qual tempo starà in carcere. Se l’uccisore non pagasse in quel tempo, sia tratto a morte».

Tutto questo rigore e questo risarcimento non è che a totale benefizio e a soddisfazione del padrone che ha perduto un servo od una serva. Tiriamo innanzi.

«Se poi alcuno ucciderà il proprio servo o la propria serva, oppure troncherà loro qualche membro, oppure li batterà con frusta, bastone o ferro, nessun processo gi si possa fare, né sia condannato».

Mi pare che quest’articolo non abbia bisogno di ulteriore spiegazione!

Abbiamo già veduto all’articolo La Donna, come una libera possa passare alla condizione di serva quando ha la disgrazia di perdere il marito, e di essere debitrice di qualche somma. Essa è allora obbligata di andare a servire il creditore per 12 soldi all’anno; e non adattandosi essa al servizio, era in facoltà del padrone costringerla coi ferri!

Nelle ferite che cagionavano la perdita di un membro abbiamo veduto applicata la legge dell’occhio per occhio, dente per dente. Ciò però, da libero a libero, o da servo a servo di diverso padrone. Se però ad un libero piaceva di rompere un braccio o di cavare un occhio ad un servo, non poteva perdere il somigliante membro, ma si toglieva ad ogni fastidio pagando la miseria di 20 lire: la metà, cioè, per il Comune, e l’altra metà per indennizzare il padrone del servo inservibile!

Tortura

In tutto il Codice, è vero, non si parla che in due o tre articoli della tortura, e sempre in modo da dinotare che se ne servivano di raro, e forse non se ne erano mai serviti. Ciò non toglie però che della tortura si facesse menzione; e se un pensiero deve consolarci, è solo quello, che gli Spagnuoli ce la fecero più tardi gustare in tutta la pompa dei più raffinati supplizi, e che gli Spagnuoli ebbero imitatori in tutti i Re di casa Savoia, da Vittorio Amedeo II ai primi anni di regno di Carlo Alberto.

L’art. 22 parlando dei ladri di strada e delle orribili pene da applicarsi ad essi, dà ampia facoltà al Podestà, nelle investigazioni dei furti, di perseguitare i malfattori accusati o denunziati, e di procedere contro di essi pro martiriu, od altro, come meglio crede.

Parlando degli usurai all’art. 44 si concede al Podestà di potersi accertare dell’usura con diversi mezzi, a suo arbitrio, non però per martirio.

L’art. 30 dice a chiare note: «Nessuno può marturiare né tormentare una persona libera, e chi farà contro sia condannato dal Podestà in lire 40 ciascuna volta».

Da quest’articolo risulterebbe, che i padroni potevano, quando loro piacesse, dare la tortura ai servi ed alle serve. Non posso però tacervi, che quest’articolo mi sembra un po’ sibillino; e forse per marturiare e tormentare non si deve intendere la tortura propriamente detta, ma bensì il maltrattamento verso coloro che nacquero servi.

L’ultimo, infine, e il più esplicito di tutti, è l’art. 154, nel quale è detto: «Il Podestà non può torturare persona di Sassari o del distretto per verun malefizio, salvo per omicidio o per furto; né può torturare alcuno, solo per essere stato nominato da un torturato». In questo caso non si poteva procedere; e se il Podestà processava, era punito colla multa di lire 100.

La tortura dunque era riservata ai soli casi d’omicidio e di furto, ed era vietata ogni qual volta derivava da denunzie di altro tormentato. «La qual eccezione – nota il Manno – indica per sé sola, come i compilatori di quel Codice stimassero poco accettevole una imputazione corrotta dalla violenza».

Ad ogni modo, di tortura si parla nei precedenti articoli, né so comprendere come l’illustre archeologo Spano abbia potuto scrivere nelle Delizie della tortura: «Al tempo del Governo Nazionale non era conosciuta; non se ne fa menzione nella Carta de Logu, né nel Codice della Repubblica Sassarese».

Uffizio delle ipoteche

Il contenuto dell’art. 47 è degnissimo di nota, e richiamò l’attenzione di molti dotti. Ecco quanto prescrive: «Nessuna persona può permettere di vendere, donare, obbligare, cambiare i propri beni o possessioni, in tutto o in parte, senza presentarsi alla Podestà e Consiglio Maggiore per farlo insinuare; e appena fatta la insinuazione si faccia bandire per la terra di Sassari una volta l’anno, nominando la persona che fece la promessa».

Il Tola dice: «Ed ecco nel 1316 una legge del Comune di Sassari per il Registro delle Ipotèche, eseguito poi in Francia ed in seguito in Italia nel secolo XVIII! – e non ottenuto in Sardegna che colla legge del 5 Agosto 1848!».

E il Boullier, da noi altra volta citato: «Quello poi che è notevole è, di trovare nella Legislazione della Repubblica di Sassari un sistema ipotecario, molto elementare senza dubbio, ma saggissimo, e che prova una grandissima attività nella trasmissione della proprietà».

E il Manno a questo proposito scrive: «Conviene far cenno dei provvedimenti adoperati acciò fosse minore nelle compre il sospetto di quei carichi che, chiamati dai Leggisti pesi reali, fecero soventi batter l’anca per la disperazione ai compratori negligenti o delusi. A tal uopo si ordinava dal Codice, che lo stabilimento delle ragioni d’ipoteca potesse solamente derivare da una scritta solenne stipulata alla presenza del Podestà e del Consiglio, e che annualmente si bandisse nelle terre tutte di Sassari la notizia di tutti gli atti di quella natura. La qual cosa, se risponde imperfettamente al bisogno della maggior pubblicità di quei carichi, contiene almeno il germe di quei più ampi ordinamenti che rendettero poscia così stimata l’iscrizione delle Ipoteche».

E Federico Sclopis, prima di mettere in rilievo il detto articolo, scrive che i provvedimenti contenuti nel Codice accennano ad un progresso d’incivilimento, e bastano a dimostrarlo due soli indizi: – la mite e ragionata qualità delle pene, e la quasi iniziativa del sistema ipotecario.

Il giudizio di tali scrittori basta da solo a renderci fieri del senno dei nostri antichi padri!