Come abbiamo veduto, gli Statuti della Repubblica di Sassari sono scritti in lingua sarda logudorese, e sarebbe ora nostro compito occuparci del dialetto che si parlava a Sassari in quel tempo, e della ragione per cui i detti Codici furono scritti in logudorese.
Il Tola, nella bellissima prefazione al Codice degli Statuti di Sassari, si ferma su questo argomento, ed io credo di far cosa grata ai lettori riportando le sue parole. Ecco quanto scrive il nostro illustre Storico concittadino:
«…Perché, domanderà taluno, trattandosi di un Codice, il quale doveva servire pei cittadini di Sassari, a vece del dialetto sassarese, si adoperò la lingua sarda? Era forse questa la lingua popolare, poiché voleasi che un esemplare degli Statuti si scrivesse in volgare per la intelligenza del popolo? O per avventura nel secolo XIV erano due gli idiomi usati nel Comune, uno dei quali fosse il plebeo parlato dal volgo, e l’altro fosse l’antico o illustre che corresse per la bocca dei cittadini educati a sapere e a civiltà, e si scrivesse negli atti della Repubblica?
«A queste e ad altrettali domande io darà una sola risposta. Ma siccome con essa intendo esprimere la particolare opinione mia, perciò lascio che ne porti ciascuno quel giudizio che gli parrà migliore. Dirò adunque, che il dialetto sassarese derivò primamente dal sardo volgare frammisto al dialetto corso e al pisano, col quale tuttavia si riscontra nelle sue locuzioni; che cominciò ad essere adoperato, come accade delle lingue native mescolate alle avventiccie, nei rozzi parlari del volgo, il quale v’innestò i suoi vocaboli plebei e lo corruppe con perplesse costruzioni, con difettive pronunzie e con accenti contadineschi; che poco per volta s’incarnò nel popolo per mezzo dei traffichi e dei commerci, sicché divenne il linguaggio della moltitudine negli usi più frequenti della vita; che il suo propagarsi fu lento, ma sempre costante, per la lunga dimora ed influenza dei Pisani e dei Côrsi, e segnatamente dei primi nella città di Sassari e nel suo territorio; che da Sassari si estese eziandio alle borgate a lei vicine, o da lei dipendenti; e che senza fissarne con precisione il tempo, si può ritenere come assai probabile, che ciò accadesse dalla metà del secolo XII fino a tutto il 1300 dell’era volgare. Le vicende cui andò soggetta la Repubblica Sassarese, dopo la distruzione del Regno turritano; i patti speciali concordati e giurati in odio dei Pisani nella citata Convenzione del 1294; e le prescrizioni espressamente rinnovate contro i medesimi, e contro i Côrsi eziandio, nel Codice statutario, provano ad evidenza, che gli uni e gli altri, già più d’un secolo innanzi, ebbero in Sassari, oltre alla permanenza del domicilio, comunanza e reciprocità d’interessi, di commerci, di matrimoni, di uffizi, di clientele e di alleanze, per le quali in nulla differivano dai cittadini, ed erano ancor essi veramente cittadini sassaresi. E questo fatto storico congiunto al fatto filologico della somiglianza fra loro dei linguaggi testé discorsi, serve ragionatamente, se il mio giudizio non erra, a confermare, nei termini da me accennati, l’origine e la formazione del dialetto sassarese.
«Ma questo dialetto era propriamente plateale, né adoperossi giammai nelle civili adunanze, negli atti, o nelle scritture, sì pubbliche che private. Erano queste dettate sempre in latino, o in sardo volgare, come si prova da tutti i documenti che scamparono dal naufragio dei tempi antichi, a cominciare dal secolo XI fino al secolo in cui viviamo. Anzi era siffattamente radicata nella colta cittadinanza la materna e matronale lingua del Logudoro, che questa sola nei cinquant’anni di reggimento repubblicano fu parlata nelle corone dei savi e nelle radunanze consolari degli anziani del popolo; questa sola di poi processe, o accompagnò la veneranda lingua del Lazio, per tramandare alla posterità le memorie dei pubblici e privati interessi; questa sola, contrastando nobilmente alle stranie lingue dei dominatori aragonesi e spagnoli, suonò ancora per lungo tempo sulla bocca degli scrittori e dei poeti sassaresi, e ritrovossi in ultimo nelle aule patrizie, per cedere soltanto il luogo al bello e dolce idioma d’Italia. E diffatti, fino agli ultimi tempi del secolo scorso le classi più elevate e gentili della cittadinanza sassarese usarono invariabilmente nel conversare domestico il sardo logudorese».
Anche sotto il dominio degli Spagnuoli era molto in uso la lingua sarda, ed io negli Archivi Comunali trovai molti alti scritti in sardo, fino al 1610.
Tornerò sulla questione quando parleremo della Sassari Spagnuola; per ora noto, che a me pare che il dialetto sassarese abbia avuto primamente l’origine dal pisano; e se i nostri Codici furono scritti in logudorese, ciò si deve unicamente all’odio dei Genovesi contro i Pisani, dei quali non volevano forse sentire neppure il linguaggio.
Credo fermamente, che al tempo della Repubblica il dialetto sassarese non fosse altro che il pisano con qualche leggerissima variazione. Più tardi esso si frammischiò con un po’ di sardo, alquanto corso, e molto spagnuolo, come diremo a suo luogo. Per dimostrare al lettore la verità di questa asserzione, mi basta confrontare il pisano di quei tempi con alcune locuzioni tuttora conservate nel nostro dialetto.
Nel Codice Diplomatico del Tola, sono riportati gli Statuti per il Porto di Cagliari, fatti e ordinati sotto il dominio dei Pisani nel 1317 – cioè a dire pochi mesi dopo la promulgazione dei nostri Codici. Orbene, leggendo questi Statuti, scritti in pisano, voi trovate molti modi di dire del dialetto sassarese, quale oggi si parla nella nostra città. L’indole della mia pubblicazione non mi permette di dilungarmi sopra un tale studio, basterà riportare alcune frasi del Codice Pisano a cui farò seguire la traduzione letterale nel dialetto sassarese.
Dal Codice Pisano
Pagare si dèbbia per li dicti due homini, li quali non siano chiamati.
Si venda lo sucaro senza paraula di li Consoli. E se lo capitulo non osservano, càggiano in pena da li diece li vincti soldi, e siano da l’uffizio cacciati; e si creda alla simprice paraula.
Li banchi ui si vende.
La giorra dello catrame, e la cascia di babacia.
L’aggio fatto – Vieni con meco.
Chelle cose sopra dicti.
Dissocto u di sopra possano e dèbbiano passare li dicti due homini.
Nel dialetto sassarese
Pagà si dèbia par li dicti due homini,li quali non siano ciamati.
Si vèndia lu zucaru senza paraula di li consoli. E si lu capitulu no osservani, càggiani in pena da li dezi a li vincti soldi, e siani da l’uffiziu cazzati; e si crèdia alla simplizi paraula.
Li banchi ui si vendi.
La jorra di lu catramu, e la cascia di bambazi.
L’aggiu fattu – Veni cun mecu.
Chiddi cosi sobbra dicti.
Dissottu u disobra pòssani e dèbiani passà li dicti dui homini.
Se il dialetto sassarese d’oggi, che pure è mischiato con molto spagnuolo, côrso e sardo, rassomiglia tanto all’antico pisano, non dobbiamo noi dedurne, che al tempo della Repubblica di Sassari era lo stesso che si parlava a Pisa?