Il 28 Febbraio 1796, seguito da oltre mille cavalieri, l’Alternos Giovanni Maria Angioy entrò in Sassari, dopo sedici giorni di marcia, prolungata ad arte per escogitare l’animo delle popolazioni, e per infiammare i cuori.
A Sassari l’accoglienza fu schietta di liberalismo, e fanatica; perocché, fugati i Baroni, l’elemento democratico dominava. Tutti correvano incontro ad Angioy; per le vie era un’onda di popolo; alle finestre erano moltissime signore. Il grido generale era:
– Abbasso i nobili! – abbasso i preti! Viva Angioy, viva la libertà, viva la Repubblica!
E Angioy, entrato per la Porta di S. Antonio, saliva per la piazza (il Corso) «Sfavillando dagli occhi gli affetti dell’animo, procedeva tra la calca a passo lento, a capo scoperto, col sorriso sul labbro, colle mani alto levate per saluto. Sebbene non fosse egli aitante della persona, tutta essa pareva sollevata pel piglio audace, cui aggiungeva grazia un mantello di saio rosso a grandi bavari di gallone dorato che dalle spalle drappeggiava sulla cavalcatura».
Smontava alla gradinata del Duomo – dove i Canonici in divisa gli vennero innanzi per inchinarlo e benedirlo, dandogli a toccare l’aspersorio, e cantandogli l’Inno Ambrosiano.
Dopo la preghiera riducevasi alla casa dello zio, Canonico Arras. E la campana della Casa Comunale suonava in quel momento a festa.
«Il Castello Aragonese – scrive il Sulis – colle sue torri, esisteva ancora nel Febbraio del 1796; ed era memoria di servitù. Ma esisteva del pari il palagio del comune col vasto atrio, convegno dei liberi comizi. La campana che ora suonava a distesa, era la medesima ai cui rintocchi si univano le popolari assemblee; memorie tutte di libertà. Sassari dunque ripigliava in quel giorno le aspirazioni antiche; e i cittadini, o sel sapessero, o che il sentissero, ripudiando colle fervorose voci i nemici della rivoluzione novella, la inauguravano col grido degli avi loro».
Angioy fu soddisfatto dei sassaresi per l’accoglienza ricevuta, la quale sorpassava ogni sua aspettazione. Egli però si trovò imbarazzato, dovendo rappresentare due parti in commedia, la parte cioè, di Ufficiale del Governo, e quello di Capo partito. Approfittando del generale entusiasmo, Angioy forse avrebbe voluto gettar la maschera, ma lo sconsigliarono nel suo proposito le notizie da lui ricevute da Torino in quello stesso giorno 28 Febbraio. La relazione dei fatti di Sassari, pervenuta a Torino dal Console di Livorno, prima che dagli Stamenti, aveva indisposto il Gabinetto, e fatto rompere le pratiche ben avviate da Monsignor Melano – Angioy continuò a fingere, per lasciar maturare il fallimento di quell’ambasciata sulla quale fi-davano i suoi avversari.
Pensò intanto di riordinare le cose in Sassari. Istituì compagnie di militi, eleggendo a Colonnello il proprio cognato Rubatta – a capitani i medici Sini e Vidili e gli avvocati Fadda e Devilla – a maggiore e luogotenente colonnello i fratelli Cav. Diego e Giorgio Scardaccio. Di più ricompose il Magistrato della R. Governazione nominando a membri i suoi intimi Solis, Sotgia Mundula e Avv. Domenico Pinna, ritenendo per sé la presidenza.
Angioy fece sì, che nelle ville del Logudoro si celebrasse un atto di federazione, in data 10 Aprile, il quale, soverchiando i confini della materia feudale, si ampliò a novità politica fino allora dissimulata. Le condizioni della Lega furono, che i confederati dovevano mettere vita e sostanza per impedire la feudale ristorazione, e che, né esattori, né giusdicenti, né altri ministri da baroni eletti ad officio, si riconoscerebbero più mai. Ai baroni il Governo provvedesse, assegnando loro giusti compensi a spese dei Comuni, in ragione dei diritti della primitiva investitura antica.
Alla detta Confederazione si ricusarono i comuni di Nulvi e di Sedini, già accorsi in addietro a Sassari per difendere i baroni. In questi villaggi sorsero ire e contese di sangue – né il feroce esempio fu imitato da nessun’altra villa, quantunque i baroni soffiassero sempre per accendere le ire.
E i partigiani dell’Angioy non stavano colle mani in mano. Essi erano tutti intenti ad affratellare quanti villaggi potevano. A tutti sovrastava il parroco di Semestene, Murroni: – in piazza, nelle vie, dal pulpito, predicava la crociata feudale.